Il pianista – Wladyslav Szpilman

Ho iniziato la mia carriera di pianista durante la guerra, al Café Nowoczesna, che si trovava in via Nowolipki, proprio nel cuore del ghetto di Varsavia. Quando nel novembre del 1940 i cancelli del ghetto vennero chiusi, la mia famiglia ormai da molto tempo aveva venduto tutto quello che si poteva vendere, persino quello che noi consideravamo il nostro bene più prezioso: il pianoforte. La vita, alla quale quei tempi avevano tolto ogni valore, mi costrinse tuttavia a vincere la mia apatia e a cercare un modo per guadagnarmi da vivere.

 

Grazie a Dio, trovai un altro lavoro  in un caffè tutt’affatto diverso in via Sienna, dove l’intellighenzia ebraica veniva a sentirmi suonare. Fu lì che cominciai a farmi conoscere e che strinsi legami di amicizia con persone con le quali in seguito avrei trascorso ore piacevoli, ma anche alcuni momenti di paura. Tra gli habitués del locale, il pittore Roman Kramsztyk, un artista di grande talento, amico di Arthur Rubinstein e di Karol Szymanowski. In quel periodo stava lavorando a un magnifico ciclo di disegni raffiguranti la vita all’interno delle mura del ghetto. Non sapeva che sarebbe stato ucciso e che gran parte dei suoi disegni sarebbe andata perduta.

 

Dopo quattro mesi mi trasferii in un altro locale, lo Sztuka (Art) in via Leszno. Era il caffè più grande del ghetto e aveva velleità artistiche. Esecuzioni musicali vi si svolgevano nella sala dei concerti. Vi cantava anche Maria Eisenstadt, il cui nome sarebbe potuto diventare famoso per milioni di persone grazie alla sua meravigliosa voce, se i tedeschi non l’avessero assassinata.

 

Nel ghetto il numero dei morti per tifo era così alto da costituire un problema riuscire a seppellirli tenendo il passo con l’indice di mortalità. D’altra parte, poiché i cadaveri non potevano essere abbandonati nell’interno delle case, fu trovata una soluzione provvisoria: i morti venivano spogliati dei loro indumenti – troppo preziosi ai vivi per lasciarglieli addosso – e quindi messi fuori sui marciapiedi, avvolti nella carta. Spesso rimanevano lì per giorni fino a quando i veicoli mandato dallo Judenrat venivano a prelevarli per portarli via e seppellirli nelle fosse comuni scavate nel cimitero. Erano i cadaveri non solo dei morti di tifo ma anche di quelli morti di fame, il motivo per cui mi riusciva terribile il rientro serale dal caffè.

 

Suonai per l’ultima volta davanti al microfono il 23 settembre. Io stesso non ho idea di come quel giorno raggiunsi la stazione radio. Correvo dall’androne di un edificio a quello di un altro, vi restavo nascosto per un po’, e quando mi sembrava di non sentire più nelle vicinanze il sibilo dei proiettili, correvo di nuovo in strada.

 

Alle 3.15 del pomeriggio di quello stesso giorno, Radio Varsavia cessò le trasmissioni.

 

Varsavia si arrese mercoledì 27 settembre. Passarono altri due giorni prima che mi arrischiassi ad arrivare in centro. Rientrai in preda a una profonda depressione: la città non esisteva più – o almeno questo pensai in quel momento nella mia sprovvedutezza.

 

Mi trovavo in Aleje Jerozolimskie quando si avvicinò una motocicletta proveniente dalla Vistola. In sella c’erano due soldati con uniformi verdi sconosciute e elmetti d’acciaio. [ …] Quelli furono i primi tedeschi che vidi. Qualche giorno dopo sui muri vennero affissi proclami bilingui, promulgati dal comandante tedesco : si promettevano alla popolazione condizioni di lavoro sicure e l’assistenza da parte dello Stato tedesco. C’era un paragrafo speciale dedicato agli ebrei. Venivano loro garantiti tutti i diritti, l’inviolabilità degli averi, e la piena sicurezza delle loro vite.

 

Ma i tedeschi invece, che avevano vinto la guerra guerreggiata contro di noi, cominciarono ora a perdere la guerra politica. Un punto di svolta cruciale fu la fucilazione dei primi cento innocenti cittadini di Varsavia, nel dicembre del 1939.

 

Dovette però trascorrere molto tempo prima che ci persuadessimo che i decreti tedeschi non avevano alcun peso, e che il pericolo reale era costituito da ciò che ti sarebbe potuto succedere del tutto inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno: non preannunciato da regole e regolamenti, per quanto inattendibili.

 

Molti ebrei non aspettarono l’arrivo dei russi in città, vendettero invece tutto ciò che possedevano a Varsavia e si trasferirono a est, nell’unica direzione che permettesse loro di sfuggire ai tedeschi. Quasi tutti i miei colleghi musicisti partirono e insistettero perché li seguissi; la mia famiglia invece decise di restare.  Dopo due giorni uno di quei colleghi tornò , ammaccato e furioso, senza più il suo zaino e il suo denaro. Vicino alla frontiera aveva visto cinque ebrei seminudi, appesi per le mani agli alberi intorno e presi a frustate.

 

Poi agli ebrei fu proibito di viaggiare in treno. In seguito fummo obbligati a pagare i biglietti del tram quattro volte di più degli “ariani”. Avevano preso a circolare le prime voci della costruzione di un ghetto. Imperversarono per due giorni, sprofondandoci nella disperazione, poi di nuovo si sopirono.

 

Nemmeno nei nostri pensieri più riposti avremmo mai sospettato che potesse accadere una cosa del genere: dal primo al 5 dicembre, gli ebrei avrebbero dovuto munirsi di bracciali bianchi contrassegnati da una stella azzurra di Davide. E ci toccava d’essere pubblicamente marchiati come paria.

 

Nel cuore più crudo di quell’inverno, arrivarono a Varsavia ebrei deportati, evacuati da ovest. Cioè, solo pochi di loro, di fatto, arrivarono: caricati su carri bestiame nei loro luoghi di origine, sigillati i portelloni, le persone rinchiuse rimasero senza cibo, senza acqua e senza alcuna possibilità di scaldarsi. Spesso ci volevano parecchi giorni prima che quei trasporti spettrali giungessero a Varsavia, e solo allora la gente veniva fatta scendere. Su alcuni di quei convogli poco meno della metà dei passeggeri riuscì a sopravvivere, e sempre in grave stato di congelamento. Gli altri, ridotti ormai a cadaveri, che il rigore del gelo manteneva ritti in mezzo ai compagni, subito cadevano a terra quando i vivi si spostavano. Sembrava che le cose non potessero peggiorare ancora. Ma questo era solo il punto di vista degli ebrei; diverso era quello dei tedeschi. Fedeli al loro sistema di esercitare la pressione con gradualità crescente, nel gennaio e nel febbraio del 1940 emanarono nuovi decreti repressivi. Il primo annunciava che gli ebrei avrebbero dovuto lavorare in campi di concentramento, dove avremmo ricevuto  una “educazione sociale appropriata”, tale da emendare la nostra natura di “parassiti inseriti nell’organismo sano delle genti ariane”. Ci sarebbero dovuti andare gli uomini trai dodici e i sessant’anni e le donne tra i quattordici e i quarantacinque. Il secondo decreto stabiliva il metodo per registrarci e portarci via. Per risparmiarsene il fastidio, i tedeschi stavano trasferendone la responsabilità al Consiglio ebraico che gestiva l’amministrazione della comunità. Avremmo dovuto assistere al nostro sterminio , preparando la nostra rovina con le nostre stesse mani, in una sorta di suicidio a norma di legge. I trasporti sarebbero iniziati a primavera.

 

Adesso , però, c’era da aspettarsi il peggio. In settembre vi furono i primi trasporti per i campi di lavoro di Betzec e Hrubieszow.

 

Di li a poco , due ulteriori eventi incisero profondamente sullo stato d’animo generale. Innanzitutto l’inizio dell’offensiva aerea tedesca contro l’Inghilterra. Quindi l’affissione di cartelli posti agli ingressi di certe strade, quelle destinate a delimitare in seguito i limiti del ghetto ebraico, affinché i passanti fossero informati della presenza del tifo in quelle strade, e dovessero quindi evitarle. Poco dopo, sull’unico quotidiano pubblicato a Varsavia dai tedeschi in lingua polacca, apparve un commento ufficiale a questo proposito: non solo gli ebrei erano parassiti sociali, ma anche propagatori di malattie infettive. Non vivevano affatto rinchiusi nel ghetto, proseguiva la cronaca, e la stessa parola ghetto era improponibile. Il giornale proseguiva affermando che i tedeschi appartenevano a una razza troppo magnanima per confinare perfino parassiti come gli ebrei dentro un ghetto, un’istituzione sopravvissuta al medioevo e indegna del nuovo ordine europeo. Occorreva invece creare un quartiere a sé stante per gli ebrei della città, destinato esclusivamente agli ebrei, dove questi avrebbero goduto di una libertà totale insieme con la possibilità di conservare la propria cultura, le proprie usanze e le pratiche tradizionali proprie della razza. Solo per esigenze igieniche quel quartiere sarebbe stato cinto da un muro affinché il tifo e altre malattie ebraiche non si diffondessero in altre parti della città. Questa relazione umanitaria era corredata da una piantina che definiva i limiti precisi del ghetto.

 

I cancelli del ghetto furono chiusi il 15 novembre.

 

Mezzo milione di persone doveva cercarsi un posto qualsiasi dove posare la testa in una zona già sovraffollata della città, dove lo spazio bastava appena per centomila persone.

 

I tedeschi andavano a caccia di selvaggina umana, da usare come bestie da soma, proprio come facevano nel resto d’Europa. Forse con l’unica differenza che nel ghetto di Varsavia quelle caccie cessarono all’improvviso nella primavera del 1942.

 

I tedeschi che non facevano parte del sistema, non avevano accesso al ghetto e nessun diritto di rubare. La polizia tedesca era autorizzata a farlo in base a un decreto emesso dal governatore generale in ottemperanza alla legge sul furto istituita dal governo del Reich.

 

Il ghetto andava sempre più restringendosi, i tedeschi ne riducevano l’area, strada per strada …

 

Il ghetto era diviso in un ghetto grande e in un ghetto piccolo. Di nuovo ridimensionato, il ghetto piccolo, costituito dalle vie Wielka, Sienna, Zelazna e Chlodna, aveva come unico collegamento con il ghetto grande il tratto dall’angolo di via Zelazna fino a via Chlodna. Il ghetto grande comprendeva tutta la parte settentrionale di Varsavia, dove si articolava un gran numero di vie e vicoli angusti e maleodoranti, gremiti di ebrei costretti a stiparsi nella miseria e nella sporcizia. Anche il ghetto piccolo era affollato, ma non a tal punto. Tre o quattro persone per stanza, e si poteva camminare per le strade senza scontrarsi con altri passanti purché ci si scansasse e ci si destreggiasse abilmente.

 

I tram a cavalli, noti come konhellerki , si facevano strada per le vie affollate sferragliando e scampanellando e i cavalli e le stanghe fendevano la massa umana come una barca che avanzi nell’acqua. La ragione sociale derivava dal nome dei due proprietari dei tram Kon e Heller, due ricchi ebrei che, al servizio della Gestapo, ne ricavavano florido commercio.

 

All’inizio della primavera del 1942 la caccia all’uomo nel ghetto, fino a quel momento condotta sistematicamente, all’improvviso s’interruppe.

 

Questa calma pressoché totale durò sino a un venerdì della seconda metà del mese di aprile quando inaspettatamente un’ondata di paura dilagò per il ghetto.

 

Durante la notte i tedeschi avevano fatto irruzione in moltissimi caseggiati, avevano trascinato una settantina di uomini in strada e li avevano fucilati.

 

Proprio quando i fiori stavano per sbocciare del tutto i tedeschi si ricordarono della nostra esistenza. Ma questa volta in modo diverso: non intendevano occuparsi di noi direttamente. Demandavano il compito della caccia all’uomo alla polizia ebraica e al sindacato ebraico. Henryk aveva avuto ragione a rifiutare di entrare nella polizia e a definirli banditi. Per lo più, erano stati reclutati tra giovani appartenenti alle classi più abbienti e tra loro c’era un gran numero di nostri conoscenti. […] Pareva quasi che avessero introiettato lo spirito della Gestapo. Non appena avevano indossato la divisa, calzato i berretti della polizia e impugnato i manganelli di gomma, la loro indole era cambiata. Ora ambivano solo a essere a stretto contatto con gli ufficiali della Gestapo, a rendersi loro utili, a sfilare al loro fianco in parata per le strade, a ostentare la buona conoscenza della lingua tedesca e a rivaleggiare con i loro padroni in crudeltà nei confronti della popolazione ebraica.  […] Nel corso della caccia all’uomo che si svolse nel mese di maggio circondarono le strade con la professionalità di vere SS, di fautori della purezza della razza. Si aggiravano nelle loro eleganti divise, urlando con voci tonanti e brutali, simili a quelle dei tedeschi, e picchiavano la gente con manganelli di gomma. Mi trovavo ancora a casa quando mia madre arrivò di corsa recando notizie della caccia: avevano preso Henryk. Decisi di liberarlo a ogni costo, benché sapessi di poter contare solo sulla mia popolarità di pianista. […] Con una certa difficoltà raggiunsi il vice direttore dell’ufficio e riuscii a strappargli la promessa che Henryk sarebbe tornato a casa  prima del calare della sera. E così avvenne, ma con mia grande sorpresa mio fratello si mostrò furibondo con me. Pensava che non avrei dovuto umiliarmi a supplicare una tale sottospecie umana come i poliziotti e il personale dell’ufficio.  […] Solo dopo molto appresi che mille uomini rastrellati nel ghetto erano stati portati direttamente al campo di Treblinka, dato che i tedeschi volevano verificare l’efficienza delle camere a gas e dei forni crematori appena costruiti. Trascorse un altro mese di pace e di tranquillità poi, una sera di giugno, nel ghetto vi fu un bagno di sangue.

 

Nell’appartamento dirimpetto al nostro viveva la famiglia di un uomo d’affari. Li conoscevamo tutti di vista. Quando la luce si accese anche in quell’appartamento e le SS irruppero nella stanza con gli elmetti in testa e le pistole spianate vi trovarono persone sedute attorno al tavolo, proprio come fino a un momento prima noi ce ne stavamo seduti attorno al nostro. Erano paralizzate dall’orrore. Il sottufficiale nazista a capo del distaccamento lo prese come un affronto personale. Ammutolito per l’indignazione, rimase immobile in silenzio a fissare le persone sedute al tavolo. Solo dopo un momento prese ad urlare con furia incontenibile : “In Piedi!” Si alzarono tutti il più in fretta possibile, eccetto il capofamiglia, un uomo anziano e storpio. A questo punto l’ufficiale era addirittura schiumante di rabbia. Si avvicinò al tavolo, vi si puntellò con le braccia, guardò fissamente il paralizzato e ringhiò per la seconda volta: «In piedi! » Il vecchio si afferrò ai braccioli della sedia per sostenersi, facendo sforzi disperati per alzarsi, ma inutilmente. Prima che ci potessimo rendere conto di ciò che stava accadendo, i Tedeschi lo afferrarono con sedia e tutto, quindi lo portarono sul balcone e lo gettarono in strada dal terzo piano. Mia madre si mise a urlare e chiuse gli occhi. Mio padre si allontanò dalla finestra, arretrando nella stanza. Halina si precipitò verso di lui mentre Regina cingeva con un braccio le spalle di mia madre, dicendo a voce molto alta e in tono molto chiaro e autoritario: «Zitta! » Henryk e io non riuscivamo a staccarci dalla finestra. Vedemmo il vecchio restare per qualche secondo sospeso in aria nella sua sedia e poi venire sbalzato fuori. Subito dopo udimmo il tonfo della sedia sull’asfalto e il rimbalzo di un corpo umano sul selciato. Restammo immobili e in silenzio, come inchiodati al suolo, non riuscivamo a distogliere lo sguardo dalla scena che avevamo davanti ai nostri occhi. Nel frattempo le SS avevano già preso ventiquattro uomini dall’edificio e li avevano fatti scendere in strada. Accesero i fari della loro macchina, costrinsero i prigionieri a restare in piedi sotto il fascio di luce, avviarono il motore e poi intimarono agli uomini di correre davanti al veicolo nel cono bianco di luce. Dalle finestre della casa antistante ci pervennero urla convulse e, di rimando dall’auto, partì una raffica. Gli uomini che correvano caddero uno dopo l’altro, sollevati in aria dai proiettili, descrivendo col corpo un salto mortale quasi il passaggio dalla vita alla morte consistesse unicamente in un balzo estremamente difficile e complicato. Solo uno riuscì a scansarsi e a proiettarsi fuori del fascio di luce. Con tutte le sue forze prese a correre e per un attimo parve che sarebbe riuscito a raggiungere la strada che intersecava la nostra. Ma sul veicolo tedesco c’era un riflettore rotante montato sul tettuccio, proprio per evenienze del genere. Si accese, a cercare il fuggiasco, si udì un’altra raffica e quindi toccò a quel poveretto essere sbalzato in aria. Con le braccia sollevate sopra la testa, inarcò la schiena come a spiccare un salto e ricadde supino. Le SS risalirono in macchina e si allontanarono passando sopra i cadaveri. Il veicolo ondeggiò leggermente mentre li schiacciava, quasi sobbalzasse su buche poco profonde.

 

In quel momento c’era ben altro a cui pensare. Oltre agli svariati e abituali passatempi quotidiani i tedeschi avevano cominciato a filmare. Ci chiedevamo tutti a quale scopo lo facessero. Irrompevano in un ristorante e ordinavano ai camerieri di apparecchiare i tavoli con il cibo migliore e i vini più pregiati. Quindi ingiungevano ai clienti di ridere, di mangiare e di bere e li riprendevano mentre erano intenti a spassarsela in quel modo. Ugualmente filmavano gli spettacoli di operetta che avevano luogo al cinema Femina in via Leszno e i concerti sinfonici diretti da Marian Neuteich che venivano dati settimanalmente nel medesimo cinematografo.  Avevano insistito con il presidente del Consiglio ebraico per indurlo a dare un lussuoso ricevimento al quale avevano partecipato tutte le persone importanti del ghetto. Ripresero anche questo. Quindi un giorno raggrupparono un certo numero di donne e di uomini nei bagni pubblici, ordinarono loro di spogliarsi, di fare il bagno tutti insieme, e filmarono questa scena curiosa in ogni particolare. Solo molto, molto più tardi, scoprii che questi film venivano realizzati per la popolazione tedesca che viveva nel Reich e all’estero. I tedeschi giravano quei film prima di liquidare il ghetto al fine di smentire tutte le voci imbarazzanti qualora al mondo esterno fossero giunte notizie di questa operazione. Per mostrare, non solo quanto fossero ricchi gli ebrei di Varsavia, ma anche quanto fossero immorali e spregevoli, riprendevano scene in cui si vedevano donne e uomini ebrei immersi nella stessa vasca da bagno mentre si denudavano impudicamente gli uni davanti alle altre.

 

Mercoledì 22 luglio, verso le 10 del mattino, mi recai in città. […] Nel pomeriggio erano già stati affissi manifesti in tutta la città. Annunciavano l’inizio dell’azione di trasferimento. Tutti gli ebrei abili al lavoro venivano destinati all’Est. Ciascuno poteva portarsi venti chili di bagaglio, provviste per due giorni e preziosi. [ …] Alla fine , dunque, il peggio era accaduto, la gente di un’intera zona della città, una popolazione di mezzo milione di persone sarebbe stata deportata. Sembrava assurdo, tutti stentavano a crederci. All’inizio i tedeschi ricorsero alla estrazione a sorte. Edifici venivano circondati in modo casuale, ora in una parte, ora in un’altra del ghetto. A un fischio tutti gli inquilini di una casa erano costretti a uscire in cortile. Quindi, di qualsiasi età o sesso fossero, inclusi vecchi e bambini, venivano caricati su carri tirati da cavalli, e portati nella Umschlagplatz, il centro di raccolta e di transito. Lì le vittime venivano stipate su camion e spedite verso l’ignoto.

 

Dato che i negozi erano stati chiusi e al ghetto non arrivavano provviste di alcun genere, nel giro di due giorni la fame si fece sentire e questa volta non risparmiava nessuno. Per la gente però quello non era il problema più urgente, ce n’era un altro più pressante. Riuscire ad ottenere un documento di lavoro.

 

Poi gli chiesi quello che tutti allora continuavamo a chiederci. “Che cosa ne pensa? Ci deporteranno?”

Invece di rispondere alla mia domanda la aggirò dicendo: “ Ha un aspetto orribile.” Mi fissò con aria di compatimento. “Prende troppo a cuore questa storia.”

“Come potrei fare diversamente? ”ribattei stringendomi nelle spalle.

Lui sorrise, si accese una sigaretta, rimase un momento in silenzio poi proseguì: “Aspetti. Tutto prima o poi finirà perché”, gesticolò con le braccia, “ perché in realtà tutto è privo di senso.”

[…] Purtroppo non solo non andò così, ma le cose peggiorarono ulteriormente nei giorni seguenti quando furono fatti arrivare lituani e ucraini. Erano venali quanto la polizia ebraica, sia pure in modo diverso. Accettavano denaro ma non appena l’avevano intascato uccidevano le persone alle quali l’avevano estorto. A loro piaceva uccidere : uccidere per puro divertimento o per facilitarsi il lavoro, per fare esercitazioni di tiro al bersaglio o anche solo per passare il tempo. Uccidevano i bambini davanti agli occhi delle madri e ridevano davanti alla loro disperazione. Sparavano alle persone mirando al ventre solo per vederle soffrire. A volte allineavano le vittime e lanciavano contro di loro delle bombe a mano da una certa distanza per verificare chi avesse la mira migliore. Ogni guerra fa emergere piccoli gruppi tra le etnie: minoranze troppo codarde per battersi apertamente e troppo insignificanti per svolgere un ruolo importante e indipendente in campo politico. Tuttavia sufficientemente spregevoli per diventare mercenari per conto di uno dei poteri in lotta. Così si comportarono in questa guerra i fascisti ucraini e lituani.

 

Poi i tedeschi si fecero venire un’ulteriore brillante idea per agevolarsi il compito. Sui muri comparvero dei bandi nei quali si diceva che tutte le famiglie che si fossero presentate volontariamente nella Umschlagplatz “per emigrare” avrebbero ricevuto uuna forma di pane e un chilo di marmellata a testa; inoltre queste famiglie di volontari non sarebbero state separate.

 

Il 2 agosto di primo mattino giunse l’ordine per tutti gli ebrei di lasciare il ghetto piccolo entro le sei del pomeriggio dello stesso giorno.

 

Infine, il 16 agosto 1942, venne il nostro turno. Al centro di raccolta era stata fatta una selezione. Soltanto Henryk e Halina furono dichiarati ancora abili al lavoro. Papà, Regina e io ricevemmo l’ordine di ritornare alle baracche. Quando rientrammo l’edificio fu circondato e sentimmo il fischio in cortile.  Era inutile continuare a lottare.

 

Tra i corpi senza vita di uomini c’erano anche quelli di una giovane donna e di due ragazze col cranio fracassato. Il muro sotto il quale giacevano recava chiare tracce di sangue e di tessuto celebrale. I bambini erano stati uccisi con il sistema preferito dai tedeschi: afferrati per le gambe , le teste sbattute con vilenza contro il muro.

 

L’uomo d’affari era abbastanza ottimista. L’altro, un dentista, , che aveva lo studio in via Sliska, poco distante dal nostro appartamento, aveva una visione catastrofica della situazione. Era nervoso e sconfortato. “E’ un’infamia per tutti noi!” sbottò quasi urlando. “Permettiamo che ci portino a morire come pecore al macello! Se attaccassimo i tedeschi … siamo mezzo milione di persone, potremmo fuggire dal ghetto, o per lo meno morire con onore, invece di coprirci di vergogna di fronte alla storia!” Mio padre ascoltava un po’ imbarazzato ma con un sorriso mite. Si strinse leggermente nelle spalle e chiese: “ Come puoi essere tanto sicuro che ci stanno mandando a morire?” Il dentista si torse le mani.  “Be’, naturalmente non lo so per certo.  Come potrei? Credi che lo diranno? Però è certo al novanta per cento che intendono eliminarci tutti!” Mio padre sorrise di nuovo, quasi che dopo quella risposta si sentisse ancora più sicuro di sé. “Guarda”, disse indicando la gente che affollava la Umschlagplatz. “ Non siamo eroi! Siamo persone assolutamente normali, ed è proprio per questo che preferiamo attaccarci a quel dieci per cento di probabilità che abbiamo di vivere!”

 

Era già pomeriggio quando vedemmo un nuovo gruppo di ebrei venire sospinto nel campo. Fu con orrore che scorgemmo tra questi anche Halina e Henryk. Dunque avrebbero condiviso il nostro destino .. E noi ci eravamo cullati nella speranza che almeno loro due si sarebbero salvati!

 

Il poliziotto ebreo che li aveva scortati mi conosceva … Lui non volle sapere di lasciarli andare. Come ogni poliziotto aveva l’obbligo di consegnare ogni giorno , personalmente, cinque persone all’Umschlagplatz, pena la propria deportazione se non avesse ottemperato all’ordine. Halina e Henryk completavano la quota di cinque ebrei per quel giorno. Era stanco, non aveva la minima intenzione di liberarli e di rimettersi a dare la caccia ad altri due, e Dio solo sapeva dove.

 

A un tratto un ragazzo si fece largo in mezzo alla folla e si avvicinò a noi. Portava appesa al collo con una cordicella una scatola di dolci. Li vendeva a prezzi ridicoli anche se solo il Cielo sa che cosa pensava di farsene del denaro. Mettendo insieme le ultime monetine che ci restavano comperammo un’unica crème caramel. Papà la suddivise in sei parti con il temperino. Quello fu l’ultimo pasto che consumammo insieme.

 

Ci eravamo spinti a circa metà del treno quando improvvisamente udii qualcuno gridare: “ Qui, qui, Szpilman!”. Una mano mi afferrò per il bavero e fui scaraventato all’indietro, fuori dal cordone della polizia. Chi osava fare una cosa simile? Io non volevo essere separato dalla mia famiglia, volevo stare con i miei. Davanti a me vedevo i poliziotti che avevano serrato i ranghi. Mi avventai contro uno di loro ma non mi fecero passare. Al di là delle loro teste, riuscii a scorgere Halina e Henryk che aiutavano mia madre e Regina a salire sui vagoni, mentre mio padre si guardava attorno a cercarmi. «Papá! » gridai! Mi vide e fece per avvicinarmisi, poi esitò e si bloccò. Era pallido, con le labbra che gli tremavano. Si sforzò di sorridere, un’espressione di impotenza e di sofferenza sul viso, poi sollevò una mano in un gesto di addio, come se lui dall’oltretomba prendesse congedo da me, che partivo verso la vita. Quindi si voltò e si diresse verso i vagoni. Mi avventai con tutta la forza che avevo in corpo contro le spalle dei poliziotti. «Papá! Henryk! Halina! »Urlavo quasi fossi stato posseduto. Ero inorridito all’idea che proprio in quell’ultimo istante così decisivo in cui avrei potuto unirmi a loro, saremmo stati separati per sempre. Un poliziotto si girò e mi fissò con aria adirata. “Che cosa diavolo pensi di fare? Vai via, salvati!” salvarmi? Da che cosa? In un lampo mi resi conto quale sorte aspettava la gente una volta salita sui carri bestiame. Mi si rizzarono i capelli in testa. Mi guardai alle spalle e vidi il campo di raccolta, i binari e le pensiline e, oltre a queste, le strade. Corsi in quella direzione, spinto da una paura irrazionale, mi infilai in mezzo a una colonna di persone che lavoravano per il Consiglio ebraico e che si stavano allontanando di lì e varcai il cancello. Quando di nuovo riuscii a pensare lucidamente, mi trovai su un marciapiede in mezzo a caseggiati. Una SS stava uscendo da uno di questi edifici in compagnia di un poliziotto ebreo. Il viso della SS esprimeva al contempo indifferenza e arroganza. Accanto a lui il poliziotto gli si rivolgeva in modo servile, sorridendogli, facendogli salamelecchi. Indicandogli il treno fermo nella Umschlagplatz disse al tedesco con familiarità cameratesca in tono sarcastico: “Eccoli diretti in fonderia!” Guardai nella direzione della sua mano: le portiere dei vagoni erano ormai chiuse e il treno si stava mettendo in moto a rilento. Mi voltai e mi avviai barcollando lungo la via deserta, singhiozzando convulsamente, inseguito dalle grida sempre più flebili delle persone rinchiuse in quei vagoni. Sembravano il frullo d’ali di uccelli in gabbia ormai agonizzanti.

 

Il 14 gennaio, un venerdì, furiosi per le sconfitte al fronte e per la gioia che manifestamente ciò suscitava nei polacchi, i tedeschi ricominciarono la caccia all’uomo, questa volta in tutta Varsavia. Andarono avanti così ininterrottamente per tre giorni. […] Dopo due giorni, però, venne il nostro turno. Quando lunedì mattina uscimmo dall’edificio, in strada non trovai il nostro gruppo al completo, ma solo alcuni operai chiaramente considerati indispensabili. Io ero tra questi, in quanto “ responsabile del magazzeno”. Ci mettemmo in movimento, scortati da due poliziotti e ci avviammo verso il cancello del ghetto.  Di solito era sorvegliato solo da funzionari della polizia ebraica, ma quel giorno un’intera unità di polizia tedesca controllava con attenzione i documenti di chiunque lasciava il ghetto per andare a lavorare. Un ragazzo di una decina d’anni arrivò di corsa lungo il marciapiedi. Era pallidissimo e tanto spaventato da dimenticare di togliersi il berretto davanti a un poliziotto tedesco che gli si stava avvicinando. Il tedesco si fermò. Senza parlare estrasse una pistola, la appoggiò alla tempia del ragazzo e fece fuoco. Questi cadde a terra, agitando le braccia, si irrigidì e morì. Lentamente, il poliziotto ripose l’arma nella fondina e proseguì. Lo guardai: non aveva lineamenti particolarmente crudeli e nemmeno appariva adirato. Era un uomo normale, tranquillo, che aveva eseguito uno dei suoi tanti irrilevanti doveri quotidiani, per passare subito dopo ad altre più “importanti” faccende. Il nostro gruppo era già sul lato ariano quando udimmo alle nostre spalle dei colpi d’arma da fuoco. Provenivano dagli altri gruppi di lavoratori ebrei che trovatisi circondati nel ghetto rispondevano alla ferocia tedesca sparando per la prima volta.

 

Quella sera non rientrammo nel ghetto. Fummo provvisoriamente alloggiati in via Narbutt. Solo più tardi venimmo a sapere quello che era successo dietro le mura del ghetto dove la gente si era difesa come meglio aveva potuto, prima di essere portata a morire. Si era nascosta in luoghi già predisposti. Le donne rovesciavano acqua sui gradini delle scale affinché gelasse e rendesse più difficoltoso ai tedeschi raggiungere i piani superiori. In alcuni edifici erano state erette solo delle barricate e gli abitanti avevano avuto scontri a fuoco con le SS. Erano ormai decisi a morire combattendo, le armi in pugno, piuttosto che a perire nelle camere a gas. I tedeschi avevano fatto evacuare i pazienti dell’ospedale ebraico e li avevano caricati sui pianali di camion scoperti, spendendoli tutti senza vestiti addosso, all’addiaccio verso Treblinka. Grazie però a questa prima dimostrazione di resistenza ebraica i tedeschi riuscirono a portare via solo circa cinquemila persone nel corso di cinque giorni, invece delle diecimila che avevano programmato.

 

Dovevo agire con decisione e tempestivamente. Probabilmente al più presto sarebbe scattata un’altra operazione di trasferimento e forse anch’io questa volta ero sulla lista di quanti sarebbero stati portati via.

 

Nel ghetto si respirava ormai un’aria di tensione, di nervosismo. Si percepiva l’incombere di una tragedia. Il colonnello Szerynski, comandante della polizia ebraica, si tolse la vita. Doveva davvero aver ricevuto notizie terribili se persino lui, che più di chiunque altro era vicino ai tedeschi, l’uomo di cu loro avevano maggiormente bisogno e che sicuramente avrebbero deportato per ultimo, non aveva visto altra soluzione per sé se non quella di darsi la morte.

 

Finalmente arrivammo al termine del nostro viaggio, al numero 10 di via Noakowski, dove mi sarei dovuto nascondere nello studio di un artista al quinto piano. Il locale era a disposizione di Piotr Perkowski, all’epoca uno dei musicisti che cospiravano contro i tedeschi. Salimmo in fretta le scale facendo tre gradini alla volta. Janina Godlewska ci aspettava nello studio. Appariva nervosa e preoccupata. Nel vederci trasse un sospiro di sollievo. “Oh, eccovi, finalmente!” Intrecciò le mani sopra la testa, poi rivolta a me soggiunse: “Solo dopo che Andrzej è uscito per venirti a prendere mi sono resa conto che oggi è il tredici febbraio e il tredici porta sfortuna!”

 

Insieme con le notizie sempre più positive che Lewicki mi portava a lui erano pervenute anche voci sempre più terrificanti riguardanti le azioni eroiche compiute dai miei confratelli, da quel pugno di ebrei che aveva deciso di opporre per lo meno una qualche resistenza attiva ai tedeschi in quell’ultimo stadio disperato. Dai giornali clandestini che ricevevo appresi della loro insurrezione, dei combattimenti ingaggiati edificio per edificio a ogni tratto di strada e delle gravi perdite subite dai tedeschi. Benché l’artiglieria , i carri armati e l’aviazione fossero stati mobilitati  durante gli scontri  che avvenivano nel ghetto, passarono settimane prima che i tedeschi riuscissero a eliminare i ribelli che erano tanto più deboli di loro. Nessun ebreo era più disposto a lasciarsi catturare vivo. Una volta, dopo che i tedeschi avevano preso possesso di un edifici, le donne che ancora si trovavano  all’interno erano salite con i bambini all’ultimo piano e da lì si erano gettate insieme ai figli nella strada sottostante.

 

Le parole pronunciate da Lewicki, prima di congedarsi mi continuavano a echeggiare nelle orecchie. Con la mano posata sulla maniglia della porta si era girato ancora una volta, mi si era avvicinato, mi aveva abbracciato e aveva detto: “ Se arrivano e irrompono  nell’appartamento gettati dal balcone, non farti prendere vivo!” Poi aveva aggiunto, per rendermi più accettabile l’idea del suicidio: “ io mi porto sempre addosso il veleno. Non prenderanno vivo nemmeno me”.

 

Col loro sistematico approccio a ogni cosa, avevano ancora il tempo di demolire le murature del ghetto, ora “ripulito” dai suoi abitanti. Distruggevano un edificio dopo l’altro, una strada dopo l’altra e facevano portare i detriti fuori dalla città su treni a scartamento ridotto. I “padroni del mondo” il cui orgoglio era stato offeso dalla sollevazione ebraica, erano decisi a non lasciare in piedi nemmeno una pietra.

 

Nonostante le assicurazioni di Helena Lewicka che la rivolta sarebbe iniziata alle cinque, ovvero nel giro di pochi minuti, io non riuscivo assolutamente a crederci. […] Questa volta Helena Lewicka aveva visto giusto: la rivolta era iniziata.

Ero solo, non soltanto nell’edificio in cui mi trovavo o in una zona della città, ma solo in un’intera città che appena due mesi  prima contava una popolazione di un milione e mezzo di abitanti ed era tra le più ricche d’Europa. Degli edifici bruciati erano rimasti solo i comignoli che si stagliavano contro il cielo e quelle poche mura che i bombardamenti avevano risparmiato.

 

Un certo numero di persone , durante la guerra, ebbe salva la vita per la codardia dei tedeschi, che amavano mostrarsi coraggiosi solo quando la loro superiorità numerica sopravanzava quella dell’avversario.

 

Me ne stavo seduto lì, a gemere, e guardavo con gli occhi spenti l’ufficiale. Solo dopo un bel po’ riuscii a balbettare a stento: «Faccia di me quello che vuole. Di qui non mi muovo! »

“Non ho intenzione di farti niente. “ L’ufficiale si strinse nelle spalle. “Che fai per vivere? “

“Il pianista. “

Mi osservò più attentamente con evidente sospetto. Poi il suo sguardo si posò sulla porta che dalla cucina conduceva alle altre stanze. Parve colpito da un’idea.

“Vieni con me, su. “

Andammo nella stanza adiacente che chiaramente doveva essere stata la sala da pranzo e poi nell’altra successiva dove, accosto alla parete, c’era un pianoforte. Mi indicò lo strumento.

“Suona qualcosa! “

Possibile che non gli fosse venuto in mente che il suono del pianoforte avrebbe attirato immediatamente l’attenzione delle SS che si trovavano nelle immediate vicinanze? Lo guardai con aria interrogativa e non mi mossi. Lui avvertì i miei timori dato che aggiunse, in tono rassicurante: “Stai tranquillo. Puoi suonare. Se arriva qualcuno nasconditi nella dispensa. Dirò che lo stavo provando io, il pianoforte. “

Quando posai le dita sulla tastiera, tremavano. Dunque questa volta avrei dovuto pagare un prezzo per la mia vita suonando il pianoforte! Non mi esercitavo più da due anni e mezzo, avevo le dita irrigidite e coperte da uno spesso strato di sporcizia. Non mi ero più tagliato le unghie da quando il caseggiato dove mi nascondevo era andato in fiamme. Non solo, ma la stanza dove si trovava il pianoforte era priva di vetri alle finestre, cosicché i meccanismi si erano gonfiati per l’umidità e resistevano alla pressione dei tasti. Eseguii il Notturno in do diesis minore di Chopin. Il suono duro e metallico delle corde scordate echeggiava attraverso l’appartamento vuoto, per le scale, fluttuava sulle macerie della villa sull’altro lato della strada e tornava indietro in un’eco sommessa e malinconica. Quando ebbi finito, il silenzio parve ancora più cupo e più sovrannaturale di prima. Da qualche parte della strada un gatto miagolava. Fuori si udì uno sparo. Un colpo secco, violento, tedesco. L’ufficiale mi guardò in silenzio. Poi trasse un respiro e bofonchiò: “Comunque faresti bene ad andartene! Ti porterò fuori città, in un paese dove potrai stare più al sicuro.”

Scossi la testa. “Non posso lasciare questo posto – risposi in tono fermo.”

Solo in quel momento parve capire la vera ragione per cui mi nascondevo tra le macerie. Sobbalzò, innervosito. “Sei Ebreo? “ chiese.

“Si. “

Se fino a quel momento se ne era stato con le braccia conserte sul petto, adesso le abbassò e si sedette sulla poltrona accanto al pianoforte, quasi che quella scoperta richiedesse un’accurata riflessione.

“Si bè”, mormorò, “adesso capisco perché non puoi andartene. “

Di nuovo per un po’ apparve assorto in pensieri profondi, poi si girò verso di me per pormi un ‘altra domanda. “Dove stai nascosto? “

“In soffitta. “

“Fammi vedere com’è lassù. ”

 

Venne Natale e poi il nuovo anno del 1945: il sesto Natale, il sesto capodanno dall’inizio della guerra, i peggiori che avessi mai vissuto. […] Ricordavo tutti i Natali trascorsi prima e durante la guerra. All’inizio avevo una famiglia, genitori, due sorelle e un fratello, poi non avevamo avuto più una casa nostra, ma avevamo continuato a vivere assieme. In seguito ero rimasto solo, ma circondato da altre persone. Ora mi sentivo più solo che chiunque altro al mondo.

 

I tedeschi si erano ritirati senza combattere. Non appena cominciò ad albeggiare mi preparai febbrilmente per avventurarmi per la prima volta fuori. Il mio ufficiale mi aveva lasciato un pastrano militare tedesco che doveva ripararmi dal gelo quando andavo a cercare l’acqua.

 

La mia situazione era veramente assurda. Stavo per essere ucciso da soldati polacchi in una Varsavia liberata per un equivoco.

 

Ripetei la mia invocazione disperata: “ Non sparate! Sono polacco!”

Il tenente avvampò d’ira: “E perché in nome di Dio non scendi?” tuonò. “ Che cosa fai con addosso un pastrano tedesco?”

Solo dopo che i soldati mi ebbero esaminato più da vicino e considerato la situazione si convinsero finalmente che non ero tedesco.

 

Due settimane più tardi, assistito nel modo migliore dai militari, pulito e riposato, passeggiavo tranquillamente per le strade di Varsavia. Un uomo libero, per la prima volta, dopo quasi sei anni.

 

Mi fermai un po’ per riposare, per tirare il fiato. Guardai nella direzione nord della città, dove un tempo esisteva il ghetto e dove erano stati trucidati mezzo milione di ebrei. Non restava più nulla. I tedeschi avevano spianato persino i muri degli edifici bruciati.

 

Qualche volta do concerti nell’edificio n.8 di via Narbutt, a Varsavia, dove avevo trasportato mattoni e malta, e dove lavorava la brigata ebraica: uomini ai quali i tedeschi avevano sparato non appena i lavori degli appartamenti degli ufficiali erano stati ultimati. Questi ultimi, però, non hanno potuto godersi a lungo le loro belle case nuove. Nell’edificio rimasto ancora in piedi ora ha sede una scuola. io suono per i bambini polacchi che ignorano quante sofferenze umane e quale mortale paura un tempo siano passate in quelle loro aule assolate. Prego perché possano non apprendere mai cosa significhino queste paure e queste sofferenze.

Una risposta a “Il pianista – Wladyslav Szpilman”

  1. Vorrei capire dov’era ubicata la casa nel ghetto del Pianista. Dal film sembra essere vicino al muro del ghetto. Sicuramente non è la via Twarda in quanto questa strada aveva i binari del tram.
    Nel film si vede due edifici storici.. ma non riesco a capire dove potrebbero essere!
    Chi di voi mi sa dire dove vieveva il Pianista nel ghetto di Varsavia? Quale strada e numero civico?

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