Storie di uno scemo di guerra, Ascanio Celestini

Fa impressione chiamare i vivi col nome dei morti. E fa impressione pronunciare il nome di un morto e sentire che c’è un vivo che ti risponde.

 

Mio padre raccontava sempre che la sora Irma faceva le porzioni scientifiche. Contava i fagioli, i ceci e i piselli. I grammi di riso erano sempre gli stessi per ogni porzione come anche i mezz’etti di carne e tutto era scarso ma distribuito in maniera democratica. Il piatto economico era la pasta asciutta con la conserva e per ogni piatto metteva tredici spaghetti contati. Ma il pasto di trattoria era un lusso che una persona intera non si poteva permettere,  e per stare a tavola in due bisognava smezzarsi la cena.

 

Durante la guerra la notte era la fine del mondo. Senza tutta la caciara dell’essere umani, per dodici ore ci stava solo il silenzio e le finestre chiuse. Le nove di sera e le cinque di mattina si rassomigliavano come due minuti dello stesso quarto d’ora, e da Val Melania al Quadraro era tutto un chiacchiericcio di grilli. Con tanti migliaia di poveri cristi che stavano chiusi dentro casa per il coprifuoco le strade si svuotavano. La sera c’avresti potuto passare un velo di zucchero e la mattina lo ritrovavi ancora lì che neanche le mosche c’avevano camminato.

 

La cicoria non ha odore. Il caffè ha un gusto già dal profumo che viene fuori dal bicchiere, ma l’Italia fascista tra i tanti miracoli che faceva ci stava pure quello di sostituire il caffè coltivato dalle razza inferiori dell’Africa e del Sud America con la cicoria autarchica. E la cicoria fa schifo proprio come il fascismo.

 

Mio padre mi racconta del lavoro. Mio padre è qualche giorno che si è messo a fare il facchino allo scalo, ma quando stacca il turno monta sui tram e cerca di abbuscarsi qualche portafoglio, va pé saccocce. Mio padre lo considera come un lavoro vero e proprio. Un’occupazione da libero professionista che ci investe pure i capitali visto che per salire sul mezzo pubblico gli tocca obbligatoriamente di pagare il biglietto, lui dice che “questi so’ periodi di saccocce vuote, so’ tempi che monti su un tram e nessuno c’ha una lira. Mi capita di girarmi due o tre tasche e non trovarci niente. Così arrivo al capolinea che l’unici quattrini che me so’ passati per le mani so’ quelli che ho speso per pagare il biglietto”. Perché questo è un genere di furti dove rischi che l’investimento è superiore al guadagno e così bisogna avere l’occhio lungo già alla fermata del tram. Bisogna scegliersi il viaggiatore da derubare prima ancora che è salito sul mezzo per non trovarsi tutta una clientela di mori di fame.

 

Mi ricordo che continuava a chiamarla creatura.  Che non la chiamava per nome questa figlia sua … mi ricordo che diceva solo la creatura. Come se il nome fosse perso insieme alla ragazzina.

 

Mezze case , mi dico nel cervello mio mentre ci cammino in mezzo, so’ rimaste in piedi tutte ‘ste mezze case come se addosso a questa città ci fosse passata soltanto mezza guerra.

 

Dice che fu nel ’43 che gli è arrivata la cartolina e l’hanno chiamato per andare in guerra. Dice che l’hanno chiamato per andare in guerra. Dice che l’hanno mandato in uno di questi paesi della bassitalia e prima di partire s’è fatto cucire dal sarto il vestito che portava addosso … un bel vestito da morto … perché era un’usanza della famiglia sua quella di farsi il vestito del funerale quando eri ancora in vita. Era una specie di corredo. Dice che appena diventavi un ragazzo, che si capiva che non saresti cresciuto di più, la famiglia si indebitava col sarto per cucire un vestito. Un vestito per quando t’avrebbero portato al camposanto.

 

Il barbiere era storto. Mio padre raccontava che il barbiere si muoveva storto e pure le parole gli uscivano storte. L’unica cosa dritta erano le pieghe del vestito. Un vestito troppo scic per uno che ci sta dentro in quella maniera storta. Però mio padre diceva pure che in tutta quella stortezza il barbiere pareva quasi un santo. Uno di quei santi inutili che non fanno i miracoli. O che ne hanno fatto uno soltanto ed è stata ‘na dannazione. La santità gli è arrivata addosso come un incidente, e mo’ sono rimasti sinistrati, piegati dal trascendente.

 

Mo’ dormono tutti vicino a ‘sto fiume che pare un fiume che non scorre più in nessun verso, come uno che si è perso la strada e non trova nessuno che gliela può indicare.

 

Il primo è il ragazzino, e per ultimi gli è toccato morire all’americani che essendo soldati gli hanno imparato che davanti alla morte bisogna mettersi in coda alla fila. Gli hanno imparato la galanteria di morire per ultimi.

 

Questa è la campagna romana. Da questa periferia fatta di pini e di frasche ricomincia la città di Roma. Da queste parti prima della guerra il principe Torlonia ci allevava i maiali e i pecorari ci venivano a pascolare le pecore. Mo’ chi c’ha una bestia se la tiene nascosta per paura che i tedeschi gliela portano via. Mo’ in questi prati non ci vengono manco i cani a pisciare.

 

“Chi crede nell’amore

Insegue una chimera

Solo colui che spera

Trova la donna semplice e sincera … “

 

Parlava e si teneva in mano ‘sto mucchietto di diti spettinati come se c’avesse avuto paura di perderseli per la strada.

 

La storia dei tedeschi morti era girata subito e pure a Primo gliel’avevano raccontato che il lunedì di Pasqua tre tedeschi ubriachi erano stati ammazzati dai partigiani del Gobbo del Quarticciolo. Dice che il fatto era successo all’osteria del Piccione e così, per ripicca, i tedeschi gli avevano levato i tram e un’ora d’aria al giorno. Per questo fatto dei soldati ammazzati parecchia gente c’aveva paura di qualche rappresaglia.

 

Tutti stanno zitti. Zitti. Perché il silenzio è l’unico lusso che si può permettere un carcerato.

 

I morti stavano sdraiati per terra e vederli così pareva che aspettavano in fila. In fila come tutte l’altre volte che s’erano incolonnati per andare al lavoro, per tornare nelle baracche, per lavarsi. Pure mo’ che erano morti dovevano rispettare il turno. Pure mo’ stavano incolonnati per farsi riconoscere, per farsi riconsegnare un nome almeno da morti, dopo tanto tempo che erano stati chiamati solo con un numero.

 

Al confine il convoglio rallentò, perché vicino alle rotaie c’era un mucchietto di ragazzini. Salutavano la gente sul treno e dietro di loro c’erano solo i vecchi e le donne a lavorare i campi.

Di tutta le generazione di mezzo pareva che non ci fosse rimasto nessuno. Primo pensò che gli uomini adulti erano ‘na razza quasi scomparsa dal mondo, e in mezza Europa ne restavano solo pochi esemplari. Qualcuno era sopravvissuto in cattività tra nascondigli e galere, l’altri tornavano mezzi ciancicati dalla guerra.

 

Però mio padre non disse niente. Aveva capito che i fatti succedono, ma nessuno li può raccontare. E quando uno si mette a raccontare … e all’inizio dice quello che è successo veramente, ma poi finisce per raccontare quello che avrebbe voluto che succedeva. E se, in quella giornata, pure mio padre si metteva a raccontare storie chissà dove sarebbe arrivato.

 

Forse gli diceva che ammazzare una mosca è una cosa di poco conto. Schiacciare una zanzara sul muro e godersi la macchia rossa di sangue è pure una soddisfazione, perché ti congratuli di aver ammazzato una bestia che t’ha appena succhiato il sangue. Ma schiacciare centinaia di zanzare sul muro, migliaia di mosche, milioni di pidocchi … significa aver compiuto uno sterminio.

E lo sterminio non è cosa di poco conto. Non lo è nemmeno quando a morire sono i pidocchi. Allo sterminio non ci si abitua.

Il capitolo 11 della Prima Parte è una delle cose più potenti che abbia mai letto, tra quelle scritte da un autore italiano. Ascanio Celestini l’ho pure conosciuto. L’ho anche intervistato. Magari la recupero , quell’intervista, e la metto pure qua. Ero più giovane. Eravamo più giovani tutti e due, ma lui già spaccava da qualche anno. Inutile dire che lo stimo moltissimo.

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