Le intermittenze della morte – Josè Saramago

Le religioni, tutte le religioni, per quanto le si rigiri, non hanno altra giustificazione di esistere all’infuori della morte, ne hanno bisogno come il pane per i denti.

 

Ben più di un’ecatombe. Per sette mesi, che tanti furono quelli che era durata la tregua unilaterale della morte, si erano andati accumulando in una lista d’attesa mai vista più di sessantamila moribondi, esattamente sessantaduemila cinquecentottanta, pacificati tutti in una volta per opera di un unico istante, di un attimo di tempo carico di potenza mortifera di cui si troverebbe comparazione solo in certe deprecabili azioni umane. A proposito, non resistiamo a rammentare che la morte, di per sé, da sola, senza alcun aiuto esterno, ha sempre ammazzato molto meno dell’uomo.

 

Onore le sia reso, la prima istituzione ad avere una percezione molto chiara della gravità dello stato d’animo del popolo in generale fu la chiesa cattolica, apostolica e romana, alla quale, visto che viviamo in un tempo dominato dall’ipertrofico utilizzo di sigle nella comunicazione quotidiana, tanto privata come pubblica, non starebbe male l’abbreviazione semplificatrice di ccar. E’ anche vero che sarebbe dovuta essere del tutto cieca per non vedere come, quasi da un momento all’altro, le si erano riempiti i templi di gente afflitta che andava in cerca di una parola di speranza, di un conforto, di un balsamo, di un analgesico, di un tranquillante spirituale. Persone che fino ad allora avevano vissuto nella consapevolezza che la morte è sicura e che non c’è modo di sfuggirle, ma al tempo stesso pensando che, visto che c’era tanta gente che doveva morire, solo per una grande scalogna sarebbe toccato a loro, ora passavano il tempo spiando dietro la tenda della finestra per vedere se arrivava il postino o tremando all’idea di tornare a casa, dove la temibile lettera di colore viola, peggiore di un sanguinario mostro dalle fauci spalancate, poteva magari trovarsi dietro la porta e saltargli addosso. Nelle chiese non c’era un attimo di tregua, le lunghe file di peccatori contriti, continuamente rinnovate come se fossero catene di montaggio, facevano due volte il giro intorno alla navata centrale. I confessori in servizio non abbassavano le braccia, talvolta distratti dalla fatica, talaltra con l’attenzione all’improvviso aguzzata da un particolare scandaloso del racconto, alla fine indicavano una punizione pro forma, tanti paternostri, tante avemarie, e dispensavano una frettolosa assoluzione. Nel breve intervallo tra il confessato che si ritirava e il confidente che s’inginocchiava, davano un morso al panino al pollo che sarebbe stato tutto il loro pranzo, mentre vagamente s’immaginavano compensi per la cena. I sermoni vertevano invariabilmente sul tema della morte come unica porta per il paradiso celeste dove, si diceva, nessuno è mai entrato da vivo, e i predicatori, nella loro ansia di consolazione, non esitavano a ricorrere a tutti i metodi della più alta retorica e a tutti i trucchi della più bassa catechesi per convincere i terrorizzati parrocchiani che, in fin dei conti, si potevano considerare più fortunati dei loro aviti, visto che la morte gli aveva concesso il tempo sufficiente per preparare le anime in vista dell’ascensione all’eden. Ci furono alcuni preti, però, che, racchiusi nella maleodorante penombra del confessionale, dovettero mettercela davvero tutta, dio solo sa con che fatica, perché anch’essi, quella mattina, avevano ricevuto la busta di colore viola e perciò ragioni ne avevano d’avanzo per  dubitare delle virtù lenitive di quello che stavano facendo in quel momento. Allo stesso modo andava coi terapeuti della mente che il ministero della salute, correndo a imitare i provvedimenti terapeutici della chiesa, aveva mandato in soccorso dei più disperati. Fatto sta che non furono poche le volte in cui uno psicologo, nel preciso momento in cui consigliava al paziente di abbandonarsi alle lacrime in quanto era il miglior modo di alleviare il dolore che lo tormentava, scoppiava in un pianto convulso ricordandosi che pure lui sarebbe potuto essere il destinatario di una busta identica nella prima distribuzione della posta dell’indomani. Terminavano così la seduta tutti e due in un pianto dirotto, abbracciati nella stessa sventura, ma col terapeuta della mente pensando che, in ogni caso, se proprio doveva capitargli una sventura del genere, avrebbe pur sempre avuto ancora otto giorni, centonovantadue ore da vivere. Qualche orgetta di sesso, droga e alcol, come aveva sentito dire che si organizzavano, lo avrebbe aiutato a passare all’altro mondo, sia pur correndo il rischio che poi, laggiù nell’eterea dimora cui era asceso, ti si venga a rincarare la nostalgia di questo.

 

Se è vero che non sorride mai, è solo perché le mancano le labbra, e questa lezione di anatomia ci dice che, al contrario di ciò che ritengono i vivi, il sorriso non è questione di denti.

 

La vita è un’orchestra che suona sempre, intonata, stonata, un piroscafo titanic che affonda sempre e sempre torna in superficie, ed è allora che la morte pensa che si ritroverebbe senza saper cosa fare se la nave affondata non potesse mai più risalire cantando quel canto evocativo delle acque che scorrono sulle fiancate, come dev’esser stato, scivolando con altra rumorosa soavità sul corpo ondulante della dea, quello di anfitrite nell’ora unica della sua nascita, per trasformarla in colei che circonda i mari, ché è questo il significato del nome che le hanno dato.

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