La confraternita dell’uva, John Fante

I figli erano i chiodi che lo tenevano crocefisso a mia madre. Senza di loro, sarebbe stato libero come un uccello. Non gli andavamo particolarmente a genio e di certo non ci amava proprio. Eravamo soltanto dei ragazzi comuni, normali e senza qualità fuori dall’ordinario ; lui aveva sperato in qualcosa di più.  … Era un montanaro venuto dall’Abruzzo, un nasone dalle mani grosse, basso ( uno e sessanta), largo come una porta, nato in una parte d’Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe campati ottantacinque. Logicamente , non molti riuscivano a compiere cinque anni. Di tredici che ne erano restavano solo lui e mia zia Pepina, che ne aveva ottanta e abitava a Denver. La sua durezza, mio padre l’aveva ereditata  da quel modo di vivere. Pane e cipolle, si vantava, pane e cipolle : che altro serve a un uomo? Ecco perché per tutta la mia vita ho provato ripugnanza per pane e cipolle. Lui era qualcosa di più del capofamiglia. Era giudice, giuria e carnefice, Geova in persona. Non c’era nessuno che potesse avere a che fare con lui senza litigare. Non gli piaceva quasi niente, in modo particolare sua moglie, i suoi figli, i vicini, la chiesa, il prete, la città, lo stato, il suo paese e il paese dal quale era emigrato. Né gli importava un fico secco del mondo intero, né del cielo né delle stelle o dell’universo, né del paradiso né dell’inferno. Ma le donne, quelle gli piacevano.

C’era pochissima gente in giro con quel calore. Perfino il salone dell’hotel Ritz, sulle cui poltrone amavano impigrire gli uomini della ferrovia, era deserto. Una città malata. Si aveva la sensazione che i bulldozer stessero ammassandosi ai suoi confini, in attesa di un segnale di morte.

In più di un quarto di secolo, l’unico cambiamento al Cafè Roma era stato quello della clientela. I vecchi di cui mi ricordavo adesso stavano al cimitero, rimpiazzati da una nuova generazione di vecchi. Per il resto, le cose procedevano uguali.

Otto o nove di loro si affollavano attorno a un tavolo verde nel retrobottega.  La lampada bassa illuminava cinque giocatori seduti attorno al tavolo, con gli altri in piedi tutt’intorno, a guardare e a far commenti. Mio padre era uno degli spettatori. Erano una ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale : gente ringhiosa, frontale, vecchi bastardi maligni e aspri, che però se la spassavano col loro spirito crudele e i modi profani del loro cameratismo. Non filosofi, non vecchi oracoli che si pronunciavano dalle profondità delle loro esperienze di vita ; ma soltanto vecchi che ammazzavano il tempo, in attesa che l’orologio si scaricasse. Mio padre era uno di loro. Me ne resi conto provando uno shock. Non me l’ero mai figurato a quel modo finché, in quel momento, non lo ebbi visto nel suo ambiente. E ora mi sembrava anche più vecchio degli altri compagni che gli stavano attorno.

Più gridavo, più battevo i pugni sul tavolo, e più lui beveva; e più beveva , più le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Cacciò di tasca un fazzoletto a pallini , si soffiò il naso e ingollò un altro poco di vino. Faceva pietà : distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere, così abominevole che sputai la birra nella sputacchiera e mi alzai per andarmene.

La cucina : il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna d’erbe magiche, rosmarino e timo e salvia e origano, balsami di loto che recavano sanità ai lunatici, pace ai tormentati, letizia ai disperati. Un piccolo mondo venti-per-venti  : l’altare erano i fornelli, il cerchio magico una tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano, quei vecchi bambini richiamati ai propri inizi, col sapore del latte di mamma che ancora ne pervadeva i ricordi, e il suo profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo cattivo che si perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva la sua covata dai lupi di fuori.

L’asma era fatale? Poteva esserlo. E così sia. Dostoevskij era epilettico, io avevo l’asma. Per poter scrivere bene, un uomo deve avere una indisposizione fatale. Era l’unico modo per avere a che fare con la presenza della morte.

Invece mi feci la doccia e mi rasai e indossai i vecchi vestiti della mia giovinezza – una salopette, una felpa, un paio di stivaloni chiodati tutti sformati. Com’era strambo trovarsi dentro quei vecchi abiti : mi sentivo un serpe uscito dalla propria pelle per cercarsene un’altra più vecchia. Mi sentivo un vecchio di sedici anni.

Mia madre rimase perplessa. Non tanto per i vestiti. – E’ che sembri troppo giovane, – disse.

– ‘Sta roba mi pare bizzarra.

Avrei voluto dire che pareva la roba di uno già morto al tempo della mia giovinezza, tempo di tensione e di crisi, di povertà familiare e prosperità paterna, di rabbia contro di lui, di convinzione che Dio dopotutto non governava il mondo, di fame di lusso e di guadagno, per saltare i recinti di casa e di città e mutarmi in qualcun altro : scrivere, scopare e scrivere.

Non era amore, ma la voglia era anche meglio.

Per mio padre e per la maggior parte della vecchia guardia italiana della contea di Placer, Angelo Musso era qualcosa di assolutamente speciale : come un antico oracolo che non dispensava saggezza, un saggio che non forniva consigli, un profeta che non prediceva, infine un dio che faceva fermentare il più incantevole vino del mondo in un minuscolo vigneto di una trentina di acri cui la natura aveva largito grandi massi e viti sublimi.

Sprofondammo in un bere meditativo ; la magia del vino stava trascendendo il miracolo del suo sapore, avvolgendo le nostre anime nel bozzolo di quel ronzio di vespe : un brusio dolce, nella pienezza e nella freschezza della vendemmia lungo quelle colline assolate. Hypnos stava discendendo su di noi, e il tempo passava cullato dal ronzio delle vespe.

La raggiunsi, e lei non si accorse che ero là ; continuava assorta in altri pensieri, con serena determinazione. Come mi pareva bella in quella notte tiepida, lungo quella strada di case cadenti appena illuminata ; innamorata del suo marito tiranno che stava all’ospedale , con quel viso di colomba e i movimenti dolci che mi ricordavano una vecchia fotografia di lei a vent’anni, con un bel cappello ampio al Capitol Park di Sacramento, appoggiata a un albero, sorridente ; preziosa allora, preziosa ora che avrei voluto prenderla tra le braccia come un amante e farle attraversare così la porta della chiesa.

Improvvisamente realizzai che mi stava prendendo in giro – e che stava prendendo in giro anche se stesso – e che non aveva alcuna intenzione di venire a cena, o di comprare un regalo a suo padre, o di fargli visita all’ospedale : Mario era un sognatore che non dava mai seguito alle sue buone intenzioni.

Che dice? Domandai.

Dice : “ E’ meglio morire di bevute che morire si sete” – . Spostai lo sguardo da lui al vecchio vignaiolo.

– E che cosa vorrebbe dire ? – chiesi , fissando gli occhi sfatti di Angelo. – Non capisco.

Prontamente, Angelo si rimise a scrivere : un’altra frase all’impronta. Poi passò il foglio a Benedetti, che tradusse di nuovo.

– “ Meglio morire tra amici che morire tra i dottori.”

Ci fu un applauso, un battimani, e calici levati per un brindisi e subito vuotati ; fece un gesto anche mio padre, il quale era al di là della soglia in cui non si capisce più nulla.

Quando le tue debolezze sono la tua forza, che fai? Piangi.

Lungo il corridoio chiamai Stella da un telefono a gettoni. Quando le comunicai la notizia, tossì e cominciò a piangere. Piangemmo a lungo, abbracciati l’uno all’altra attraverso il telefono.

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