Primo Levi, dai suoi libri

Da, Se questo è un uomo

Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio il fondo della gamella per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto.Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più?
Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn
.
Da, I sommersi e i Salvati

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di campo: ho scordato che cosa gli ho detto, certo parole di speranza, forse qualche bugia buona per un nuovo, detta con l’autorità dei miei venticinque anni e dei miei tre mesi di anzianità ; comunque, gli ho fatto dono di un’attenzione momentanea. Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo anche assimilato a fondo la regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a se stessi. Mai ho trovato espressa questa regola con tanta franchezza quanto nel libro Prisoners of Fear (Victor Gollancz, London, 1958) di Ella Lingens-Reiner (in cui però la frase viene attribuita ad una dottoressa che, contro il suo enunciato, si dimostrò generosa e coraggiosa e salvò molte vite):

“Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di nuovo; e poi tutti gli altri”.

.

Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese d’origine e con la famiglia: chi ha provato l’esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. Ne nasce una mortale impressione di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché non mi scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle genetica predicata in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni (i suoi contraddittori vennero esiliati in Siberia), compromise i raccolti per vent’anni. L’intolleranza tende a censurare, e la censura accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare. L’ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il peso dell’essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal genere umano. Era l’ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere una lettera, a chi l’avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d’Europa erano sommerse o disperse o distrutte. A me (l’ho raccontato in “Lilìt” [Einaudi, Torino 1981]) è toccata la rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia. Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore anziano quasi analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca Guidetti Serra, che adesso è un noto avvocato. So che è stato questo uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un’eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare.
.
L’operazione  era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti : questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano : occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio a distinguere gli ebrei dai “barbari” , il tatuaggio è vietato dalla legge mosaica ( Levitico 19.28).
.
Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire lucidamente l’imminenza della morte: quando, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare davanti alla «commissione» che con un’occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.
 .
Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo a questo scopo, ricorderò qui l’impresa di Mala Zimetbaum; vorrei infatti che ne rimanesse memoria. L’evasione di Mala dal Lager femminile di Auschwitz-Birkenau è stata narrata da più persone, ma i particolari concordano. Mala era una giovane ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e che parlava correntemente molte lingue, perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini, e come tale godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa e coraggiosa; aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell’estate del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non volevano soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare al mondo il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere una S.S. ed a procurarsi due uniformi. Uscirono travestiti e giunsero fino al confine slovacco; qui vennero fermati dai doganieri, che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori e li consegnarono alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati a Birkenau. Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che, secondo l’accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza: infilò il capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello. Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in una cella attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla e le chiese «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca si recise l’arteria di un polso. L’S.S. che fungeva da boia cercò di strapparle la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté sul viso la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una prigioniera, un’ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a morte; spirò, per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.
 .
Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle S.S., e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori, e completata poi dal “Drill” delle S.S. A questa milizia parecchi avevano aderito per il prestigio che conferiva, per la sua onnipotenza, o anche solo per sfuggire a difficoltà famigliari. Alcuni, pochissimi per verità, ebbero ripensamenti, chiesero il trasferimento al fronte, diedero cauti aiuti ai prigionieri, o scelsero il suicidio. Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le «belle parole» del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti, miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato gioco politico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *