I sommersi e i salvati – Primo Levi

Gli stessi forni crematori multipli erano stati progettati, costruiti, montati e collaudati da una ditta tedesca, la Topf di Wiesbaden ( era tuttora attiva fin verso il 1975 : costruiva crematori per uso civile , e non aveva ritenuto opportuno apportare mutamenti alla sua ragione sociale). E’ difficile pensare che il personale di queste imprese non si rendesse conto del significato espresso dalla qualità o dalla quantità delle merci e degli impianti che venivano commissionati dai comandi SS.

Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni : perché lo hai fatto ? ti rendevi conto di commettere un delitto?

Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono molto simili tra loro, indipendentemente dalla personalità dell’interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di vista corta come Stangl di Treblinka e Hoss di Auschwitz, o un bruto ottuso come Boger e Kaduk, inventori di torture. Espresse con formulazioni diverse, e con maggior o minor protervia a seconda del livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte sostanzialmente le stesse cose: l’ho fatto perché mi è stato comandato ; altri ( i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie ; data l’educazione che ho ricevuta , e l’ambiente in cui sono vissuto, non potevo fare altro ; se non l’avessi fatto, l’avrebbe fatto con maggiore durezza un altro al mio posto.

Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da “laboratorio “: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare. La zona grigia della “protekcja” e della collaborazione nasce da radici molteplici. In primo luogo, l’area del potere, quanto più è ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com’era a mantenere il suo ordine all’interno dell’Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d’opera, ma anche forze d’ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all’esaurimento. Entro quest’area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso, Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici, sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ’70. In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l’ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.

 

Lo sapeva bene il Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”. La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.

 

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di campo: ho scordato che cosa gli ho detto, certo parole di speranza, forse qualche bugia buona per un nuovo, detta con l’autorità dei miei venticinque anni e dei miei tre mesi di anzianità ; comunque, gli ho fatto dono di un’attenzione momentanea. Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo anche assimilato a fondo la regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a se stessi. Mai ho trovato espressa questa regola con tanta franchezza quanto nel libro Prisoners of Fear (Victor Gollancz, London, 1958) di Ella Lingens-Reiner (in cui però la frase viene attribuita ad una dottoressa che, contro il suo enunciato, si dimostrò generosa e coraggiosa e salvò molte vite):

“Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di nuovo; e poi tutti gli altri”.

 

In Lager , il raffreddore e l’influenza erano sconosciuti, ma si moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno mai avuto occasione di studiare. Guarivano ( o diventavano asintomatiche) le ulcere gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio incessante, che inquinava il sonno e che non ha nome.

 

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che “nessun uomo è un’isola”, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsi toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il “partial shelter” di T.S.Elliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, e non abbiamo voluto essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.

 

Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese d’origine e con la famiglia: chi ha provato l’esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. Ne nasce una mortale impressione di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché non mi scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle genetica predicata in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni (i suoi contraddittori vennero esiliati in Siberia), compromise i raccolti per vent’anni. L’intolleranza tende a censurare, e la censura accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare. L’ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il peso dell’essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal genere umano. Era l’ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere una lettera, a chi l’avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d’Europa erano sommerse o disperse o distrutte. A me (l’ho raccontato in “Lilìt” [Einaudi, Torino 1981]) è toccata la rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia. Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore anziano quasi analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca Guidetti Serra, che adesso è un noto avvocato. So che è stato questo uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un’eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare.

 

Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia: si pensi ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour, Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia, già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; ma altre minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria di ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro.

 

L’operazione  era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti : questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano : occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio a distinguere gli ebrei dai “barbari” , il tatuaggio è vietato dalla legge mosaica ( Levitico 19.28).

 

In un regime totalitario, l’educazione, la propaganda e l’informazione non incontrano ostacoli : hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi un’idea.

 

Come si vede , l’amore per il lavoro ben fatto è una virtù fortemente ambigua. Ha animato Michelangelo fino ai suoi ultimi giorni, ma anche Stangl, il diligentissimo carnefice di Treblinka, replica con stizza alla sua intervistatrice : “ Tutto ciò che facevo di mia libera volontà dovevo farlo al meglio che potevo. Sono fatto così”. Della stessa virtù va fiero Rudolf Hoss , il comandante di Auschwitz, quando racconta il travaglio creativo che lo condusse ad inventare le camere a gas.

 

Tuttavia, a differenza di Améry e di altri, il mio senso di umiliazione per il lavoro manuale è stato moderato: evidentemente non ero ancora abbastanza «intellettuale». In fondo, perché no? Avevo una laurea, certo, ma era stata una mia fortuna non meritata; la mia famiglia era stata ricca abbastanza da farmi studiare: molti miei coetanei avevano spalato terra fin dall’adolescenza. Non volevo l’uguaglianza? Ebbene, l’avevo avuta. Ho dovuto cambiare opinione pochi giorni dopo, quando le mani e i piedi mi si sono coperti di vesciche e di infezioni: no, neanche sterratori non ci si improvvisa. Ho dovuto imparare in fretta alcune cose fondamentali, che i meno fortunati (ma in Lager erano i più fortunati!) imparano fin da bambini: il modo giusto di impugnare gli attrezzi, i movimenti corretti delle braccia e del tronco, il controllo della fatica e la sopportazione del dolore, il sapersi fermare poco prima dell’esaurimento, a costo di prendere schiaffi e calci dai Kapos, e talvolta anche dai tedeschi «civili» della I.G. Farbenindustrie. I colpi, l’ho detto altrove, generalmente non sono mortali, il collasso invece sì; un pugno dato a regola d’arte contiene in sé la sua stessa anestesia, sia corporea, sia spirituale. A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l’uomo colto. Era una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti (insisto: così ad Auschwitz, capitale concentrazionaria, nel 1944. Altrove, o in altri tempi, la situazione poteva essere migliore, o anche molto peggiore). Il pugno dato dall’Autorità poteva essere accettato, era, letteralmente, un caso di forza maggiore; erano inaccettabili invece, perché inaspettati e fuori regola, i colpi ricevuti dai compagni, a cui raramente l’uomo incivilito sapeva reagire. Inoltre, una dignità poteva essere trovata nel lavoro manuale, anche nel più faticoso, ed era possibile adattarvisi, magari ravvisandovi una rozza ascesi, o, a seconda dei temperamenti, un «misurarsi» conradiano, una ricognizione dei propri confini. Era molto più difficile accettare la routine della baracca: rifare il letto nel modo perfezionistico ed idiota che ho descritto fra le violenze inutili, lavare il pavimento di legno con luridi stracci bagnati, vestirsi e spogliarsi a comando, esibirsi nudi agli innumerevoli controlli dei pidocchi, della scabbia, della pulizia personale, far propria la parodia militaristica dell’«ordine chiuso», dell’«attenti a destr», del «giù il berretto» di scatto davanti al graduato S.S. dal ventre porcino. Questa sì era sentita come una destituzione, una regressione esiziale verso uno stato d’infanzia desolato, privo di maestri e di amore. Anche Améry-Mayer afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio a cui ho accennato nel quarto capitolo: eppure lui era di lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha sofferto “perché” era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua: come soffrirebbe uno scultore nel veder deturpare o amputare una sua statua. La sofferenza dell’intellettuale era dunque diversa, in questo caso, da quella dello straniero incolto: per questo, il tedesco del Lager era un linguaggio che lui non capiva, con rischio della sua vita; per quello, era un gergo barbarico, che lui capiva, ma che gli scorticava la bocca se cercava di parlarlo. L’uno era un deportato, l’altro uno straniero in patria.

 

Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire lucidamente l’imminenza della morte: quando, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare davanti alla «commissione» che con un’occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.

 

Nei giorni folgoranti e densissimi che seguirono immediatamente alla liberazione, su un miserando scenario di moribondi, di morti, di vento infetto e di neve inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a farmi radere per la prima volta della mia nuova vita di uomo libero. Il barbiere era un ex politico, un operaio francese della «ceinture»; ci sentimmo subito fratelli, ed io feci qualche commento banale sulla nostra così improbabile salvazione: eravamo dei condannati a morte liberati sulla pedana della ghigliottina, vero? Lui mi guardò a bocca aperta, e poi esclamò scandalizzato: «… mais Joseph était là!» Joseph? Mi occorse qualche istante per capire che alludeva a Stalin. Lui no, non aveva mai disperato; Stalin era la sua fortezza, la Rocca che si canta nei Salmi. La demarcazione fra colti e incolti, beninteso, non coincideva affatto con quella fra credenti e non credenti: anzi, la tagliava ad angolo retto, a costituire quattro quadranti abbastanza ben definiti: i colti credenti, i colti laici, gli incolti credenti, gli incolti laici; quattro piccole isole frastagliate e colorate, che si stagliavano sul mare grigio, sterminato, dei semivivi che forse colti o credenti erano stati, ma che ormai non si ponevano più domande, ed a cui sarebbe stato inutile e crudele porre domande.

 

Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo a questo scopo, ricorderò qui l’impresa di Mala Zimetbaum; vorrei infatti che ne rimanesse memoria. L’evasione di Mala dal Lager femminile di Auschwitz-Birkenau è stata narrata da più persone, ma i particolari concordano. Mala era una giovane ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e che parlava correntemente molte lingue, perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini, e come tale godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa e coraggiosa; aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell’estate del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non volevano soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare al mondo il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere una S.S. ed a procurarsi due uniformi. Uscirono travestiti e giunsero fino al confine slovacco; qui vennero fermati dai doganieri, che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori e li consegnarono alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati a Birkenau. Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che, secondo l’accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza: infilò il capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello. Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in una cella attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla e le chiese «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca si recise l’arteria di un polso. L’S.S. che fungeva da boia cercò di strapparle la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté sul viso la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una prigioniera, un’ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a morte; spirò, per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.

 

La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi potenti», è vecchia come la storia dell’umanità ed altrettanto varia e tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell’autorità sfidata, le rispettive coesioni o spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all’altra, l’abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L’immagine tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti. Il fatto non può stupire. Un capo dev’essere efficiente: deve possedere forza morale e fisica, e l’oppressione, se spinta oltre un certo livello molto basso, deteriora l’una e l’altra. Per suscitare la collera e l’indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci: non certo i “putsch” né le «rivolte di palazzo»), occorre sì che l’oppressione esista, ma essa dev’essere di misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. L’oppressione nei Lager era di misura estrema, ed era condotta con la nota, ed in altri campi encomiabile, efficienza tedesca. Il prigioniero tipico, quello che costituiva il nerbo del campo, era al limite dell’esaurimento: affamato, indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi: era un uomo «impedito», nel senso originario del termine. Non è un dettaglio secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio, e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o cinematografica. Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle minuscole di cui ci occupiamo qui, sono state guidate da personaggi che conoscevano bene l’oppressione, ma non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho già accennato, fu scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: erano uomini disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La rivolta del ghetto di Varsavia fu un’impresa degna della più reverente ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l’unica condotta senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una élite politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali privilegi, allo scopo di conservare la propria forza.

 

Questo avvenne in misura maggiore in Germania che non in Italia. Gli ebrei tedeschi erano quasi tutti borghesi ed erano tedeschi: come i loro quasi-compatrioti «ariani» amavano la legge e l’ordine, e non solo non prevedevano, ma erano organicamente incapaci di concepire un terrorismo di stato, anche quando già lo avevano intorno a loro. C’è un famoso e densissimo verso di Christian Morgenstern, bizzarro poeta bavarese (non ebreo, nonostante il cognome), che cade qui in acconcio, anche se è stato scritto nel 1910, nella Germania pulita proba e legalitaria descritta da J. K. Jerome in “Tre uomini a zonzo”. Un verso talmente tedesco e talmente pregnante che è passato in proverbio, e che non può essere tradotto in italiano se non attraverso una goffa perifrasi:

“Nicht sein kann, was nicht sein darf”.

E’ il sigillo di una poesiola emblematica: Palmström, un cittadino tedesco ligio ad oltranza, viene investito da un’auto in una strada dove la circolazione è vietata. Si rialza malconcio, e ci pensa su: se la circolazione è vietata, i veicoli non possono circolare, “cioè” non circolano. “Ergo”, l’investimento non può essere avvenuto: è una «realtà impossibile», una “Unmögliche Tatsache” (è questo il titolo della poesia). Lui deve averlo soltanto sognato, perché, appunto, «non possono esistere le cose di cui non è moralmente lecita l’esistenza».

 

Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come un animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie, che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un magazzino di invenduti, vi annegarono nell’alluvione dell’autunno 1966. Dopo dieci anni di «morte apparente», ritornò alla vita quando lo accettò l’editore Einaudi, nel 1957.

 

Scrissi all’editore che non mi sentivo in grado di stendere una prefazione che non snaturasse il libro, e gli proposi una soluzione indiretta: di premettere al testo, in sede di introduzione, un brano della lettera che nel maggio 1960, alla fine della nostra laboriosa collaborazione, avevo scritta al traduttore per ringraziarlo della sua opera. Lo riproduco qui:

“… E così abbiamo finito: ne sono contento, e soddisfatto del risultato, e grato a Lei, ed insieme un po’ triste. Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco mi sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne va, e non si può più occuparsi di lui. Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e l’avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita. Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, il prigioniero numero 174 517, per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammentare loro quello che hanno fatto, e dire loro «sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi». Io non credo che la vita dell’uomo abbia necessariamente uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di fare udire la mia voce al popolo tedesco, di «rispondere» al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla, al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono l’Ultimo [si tratta di personaggi di “Se questo è un uomo”], ed ai loro eredi. Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere (…) Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i tedeschi, di placare questo stimolo”.

L’editore accettò la mia proposta, a cui il traduttore aveva aderito con entusiasmo; perciò questa pagina costituisce l’introduzione di tutte le edizioni tedesche di “Se questo è un uomo”: anzi, viene letta come parte integrante del testo. Me ne sono accorto appunto dalla «natura» della eco a cui si accenna nelle ultime righe.

 

Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle S.S., e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori, e completata poi dal “Drill” delle S.S. A questa milizia parecchi avevano aderito per il prestigio che conferiva, per la sua onnipotenza, o anche solo per sfuggire a difficoltà famigliari. Alcuni, pochissimi per verità, ebbero ripensamenti, chiesero il trasferimento al fronte, diedero cauti aiuti ai prigionieri, o scelsero il suicidio. Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le «belle parole» del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina, funestati da lutti, miseria e rimorsi, e riabilitati pochi anni dopo per uno spregiudicato gioco politico.

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