Reinaldo Arenas – Prima che sia notte

Forse mia madre a quei balli credeva di incontrare un uomo serio che la sposasse, ma non ebbe fortuna, o volontà. Credo che sia sempre rimasta fedele all’infedeltà di mio padre e che per questo abbia scelto la castità. Una castità amara, innaturale e crudele : aveva allora solo vent’anni.  La sua castità fu peggiore a quella di una vergine, perché per qualche mese mia madre aveva conosciuto il piacere, rinunciandovi poi per tutta la vita. Questo fu per le fonte di grande frustrazione.

 

Mio nonno aveva le sue impennate d’ira: smetteva di parlare e si faceva muto, spariva da casa e trascorreva settimane intere sui monti, dormendo sotto gli alberi. Diceva di essere ateo e per la verità passò la vita a bestemmiare la madre di Dio. Forse lo faceva per dispetto a mia nonna, sempre in ginocchio in mezzo alla campagna a chiedere qualche grazia al Cielo; grazia che, in genere, non le veniva concessa.

 

Gli alberi hanno una vita nascosta che si rivela solo a chi si arrampica; salire su un albero vuol dire scoprire un mondo unico, ritmico, magico e armonioso; bruchi, insetti, uccelli, nibbi, esseri apparentemente insignificanti, ci rivelano i loro segreti.

 

Per il momento avevo rapporti sessuali solo con gli animali: le capre, le scrofe. Quando diventai un po’ più grande, le giumente; farsi una giumenta era, in genere, un atto collettivo. Tutti noi ragazzi salivamo su una pietra per essere all’altezza dell’animale, e, a turno, godevamo di quel piacere. Era un buco caldo, infinito per noi.

 

Rotolarmi nell’erba non mi bastava: volevo alzarmi, levarmi in volo come quegli uccelli, da solo con il temporale. Arrivo al fiume in piena, preso dal fascino incontrollabile della violenza. La forza della corrente che cercava di rompere gli argini travolgeva tutto, alberi, pietre, animali, case: era il mistero della distruzione e della vita. Non sapevo bene dove arrivava il fiume, dove sarebbe terminata quella cosa frenetica, ma qualcosa mi diceva che anch’io avrei dovuto perdermi in quel frastuono, buttarmi in acqua e sparire, che solo in quel torrente, sempre in movimento, avrei trovato un po’ di pace. Non osavo tuffarmi, sono sempre stato un vigliacco. Arrivavo alle sponde dove l’acqua, mugghiando, mi chiamava. Un altro passo e il gorgo mi avrebbe inghiottito. Quante cose avrei evitato se lo avessi fatto!

 

 

Quella, tra i sette e i dieci anni, fu una tappa di grande erotismo, di una voracità sessuale che, come ho già detto, coinvolgeva tutta la mia vita. Coinvolgeva la natura in genere, anche gli alberi. Per esempio aprivo un buco negli alberi dal fusto tenero, come quelli da frutta, e ci infilavo il pene. Era un gran piacere venire in un albero; lo facevano anche i miei cugini, con i meloni, le zucche, le anone. Uno di loro, Javier, mi confessò che il piacere più intenso lo provava con il gallo. Un giorno il gallo morì. Non credo che fosse a causa delle dimensioni del sesso di mio cugino, peraltro piccoletto; penso che il gallo fosse morto dalla vergogna di essere stato violentato , quando era lui che si faceva tutte le galline del patio.

 

Il contadino medio ha una forza erotica che supera, in genere, pregiudizi di ogni tipo, repressioni e castighi. E’ questa forza, la forza della natura, a imporsi. Sono convinto che in campagna siano pochi gli uomini che non abbiano avuto rapporti con altri uomini: per loro i desideri del corpo stanno in cima a tutti i sentimenti maschilisti che i nostri padri ci hanno inculcato.

 

Mia nonna conosceva le proprietà di quasi tutte le erbe e preparava tisane e decotti per ogni tipo di malattia. Con uno spicchio d’aglio ammorbidiva un imbarazzo intestinale, massaggiandoci non la pancia, ma una gamba. Con un sistema che chiamava las Cabanuelas che consisteva in dodici misteriosi mucchi di sale che scopriva il primo di gennaio, era in grado di predire le epoche di pioggia e di siccità dell’anno a venire.

 

Mia nonna conosceva canzoni ancestrali; mi prendeva in braccio e me le cantava. Non ricordo tenerezze simili da parte di mia madre. Mia nonna poteva permettersi la tenerezza, forse perché per lei non ero l’immagine vivente di nessuna frustrazione, di nessun fallimento; poteva farmi una carezza senza provare risentimento o vergogna. Per mia madre ero il frutto di un amore vano, per mia nonna ero un altro bambino  a cui raccontare un’avventura, una favola, cantare una canzone, come aveva già fatto con i suoi figli. Mia nonna era indubbiamente saggia.

 

Mia nonna era analfabeta, ma obbligò tutti i suoi figli ad andare a scuola e quando non volevano strappava un ramo di un albero con le spine e, frustrandoli, ce li portava. Tutti i suoi figli sapevano leggere e scrivere.

 

Il mondo di mia nonna era assai più completo di quello di mio nonno che diceva di essere ateo e, in apparenza, non credeva in niente: non aveva perciò grandi passioni metafisiche. Mia nonna credeva in Dio e a volte si sentiva truffata da lui. Lo asfissiava con domande e suppliche. Il suo mondo era fatto di inquietudine e impotenza. E tutto ciò avveniva in una donna analfabeta, che interpretava le stelle mentre doveva scavare in terra ogni giorno per trovare qualcosa da mangiare. Anche la cucina e il focolare erano al centro della sua esistenza e tutti noi, al risveglio, facevamo colazione al tepore della legna accesa da lei.

 

Come mai mio nonno aveva avuto l’intuizione che il comunismo non avrebbe risolto i problemi di Cuba, se in realtà non era mai stato vittima di quel sistema, anzi, subiva quasi tutti i mali di quello capitalista? Direi che si trattò di intuizione contadina. Credo che anche i reportage fotografici sulle fucilazioni dei contadini nei paesi comunisti avessero influito sul giudizio di mio nonno. Era così radicalmente contrario al comunismo, che odiava con tutte le sue forze anche le dittature di destra, delle quali eravamo succubi in quel momento, come lo eravamo stati e lo saremmo stati ancora per anni. Per mio nonno tutti i governanti precedenti a Batista erano delinquenti. Per questo aveva un gran rispetto per Chibas, fustigatore della corruzione, il cui motto era “La vergogna contro il Denaro”.  L’eroe di mio nonno non riuscì a diventare  presidente della repubblica: qualche mese prima delle elezioni si sparò. La motivazione di quel suicidio, secondo vari giornalisti, era collegata al fatto che Chibas, che aveva denunciato la corruzione di un alto funzionario del governo, Aureliano Sanchez Arango, non riuscì poi a provare le accuse.

 

Il giorno di paga andavo al cinema, l’unico luogo magico di Holguìn, l’unico posto dove si poteva fuggire per qualche ora dalla città. Andavo al cinema da solo perché non mi piaceva condividere con nessuno il piacere di assistere allo spettacolo. Mi sedevo in piccionaia, nei posti più a buon mercato, e con cinque centesimi riuscivo a vedere anche tre film. Era un piacere vedere quella gente cavalcare nelle praterie, tuffarsi in fiumi tempestosi o spararsi addosso, mentre io morivo di noia in quel posto senza fiumi, praterie, boschi, niente che avesse per me qualche interesse.

 

Nel natale del 1957 mio nonno non disse “feste”: non ci fu nessuna festa. Le sole feste che ci furono, furono quelle di sangue, come le chiamò la rivista Bohemia, per la quantità di omicidi politici di cui quel mese si macchiò il governo. Si sentiva sparare: ormai il terrore era cosa di tutti i giorni. Quasi tutta la provincia d’Oriente era contro Batista e sui monti si nascondevano i ribelli. A volte attaccavano l’esercito di Batista e lo mettevano in fuga, perché i soldati erano quasi sempre povera gente che moriva di fame e che non aveva intenzione di crepare per una ragione così stupida. E nemmeno si può parlare di uno scontro tra i guerriglieri di Fidel Castro e le truppe di Batista: studenti, membri del Movimento 26 luglio, o semplici simpatizzanti di Castro catturati nelle città, torturati e assassinati, e poi buttati su un dosso per intimorire la popolazione e, soprattutto, i cospiratori. Ma tra i soldati di Castro, come pure tra quelli di Batista, non ci furono grandi perdite. Quando la Rivoluzione trionfò Castro parlò di ventimila morti , una cifra che divenne mitica, simbolica: ma i nomi di questi ventimila morti non furono mai resi noti, né lo saranno mai, perché in questa guerra non ci furono. In realtà non ci fu neanche una vera e proprio guerra, ma la reazione unanime di un intero popolo contro un dittatore. Il popolo si occupava dei sabotaggi e, soprattutto, diffondeva la notizia che i ribelli erano migliaia e che erano dappertutto. Ma quello che c’era davvero dappertutto era l’odio per il regime di Batista, per questo spuntavano da ogni parte bandiere del 26 luglio. Anch’io una volta ne sventolai una. Batista era un dittatore inetto, incapace di esercitare un controllo assoluto e a poco a poco perse il suo potere, a causa dell’inarrestabile corruzione dei suoi alleati e delle defezioni dei più onesti.

 

Nei primi giorni della rivoluzione molti furono giustiziati senza processo. Poi furono istituiti i cosiddetti “tribunali rivoluzionari” e la gente veniva fucilata con rapidità; al nuovo regime bastava la delazione di chiunque davanti a un giudice improvvisato. I processi erano rappresentazioni teatrali a cui la gente si divertiva a vedere come condannavano al muro un povero diavolo che magari aveva soltanto tirato uno schiaffo a uno che ora approfittava dell’occasione per vendicarsi; morivano innocenti e colpevoli. Ora moriva molta più gente di quanta ne fosse morta nella guerra che non c’era stata.

 

Perché la stragrande maggioranza del popolo e degli intellettuali non si resero conto del fatto che stava cominciando una nuova tirannide, più sanguinosa ancora della precedente? Forse ce ne rendemmo conto, ma la gioia di sapere che si viveva una rivoluzione, che una dittatura era stata abbattuta  e che era giunto il momento di vendicarsi, era più grande delle ingiustizie e dei crimini che venivano commessi. E non solo si commettevano ingiustizie; ma le fucilazioni venivano fatte in nome della giustizia e della libertà e, soprattutto, nel nome del popolo.

 

Quando salivamo sulle montagne cantando nessuno sospettava che dietro quelle escursioni si nascondessero piani sordidi, ma invece era così. Dopo pochi mesi ci dissero che non eravamo semplici studenti, ma l’avanguardia della Rivoluzione, e perciò giovani comunisti e soldati dell’esercito.  Nelle ultime escursioni non cantavamo più quello che volevamo , ma l’Internazionale e altri inni comunisti. Il direttore della scuola era Alfredo Sarabia, un vecchio militante del partito comunista; così, nel 1960, mentre Castro diceva al mondo che non era comunista e che la rivoluzione cubana era “verde come le palme”, a Cuba già si formava la gioventù secondo la dottrina comunista, addestrandola anche militarmente, perché ricevevamo anche un’istruzione militare e ci insegnavano a maneggiare armi pesanti.

 

Andavamo a teatro quasi tutte le sere a vedere un film russo; mangiavamo pure molta carne russa. Senza dubbio ci indottrinavano, ma ci davano anche da mangiare, e studiavamo gratis. Il governo ci vestiva, ci educava a modo suo e disponeva del nostro destino.

 

All’inizio, quando avevo diciassette anni, cantavo gli inni della Rivoluzione e studiavo, ovviamente, il marxismo. Diventai perfino uno dei direttori dei circoli degli studi marxisti, e , in seguito, un giovane comunista. Credevo che tutti quelli che si ribellavano contro Fidel si sbagliassero o fossero dei pazzi. Credevo, o volevo credere, che la Rivoluzione fosse bella e nobile. Non potevo credere che quella Rivoluzione che mi offriva un’educazione gratuita fosse qualcosa di malvagio.

 

Finalmente mi diplomai contabile agricolo. Ma prima del mio diploma accadde qualcosa che mi riempì di tristezza e che mi ricordò le parole di mio nonno. Il nonno diceva sempre che il comunismo era la fine della civiltà, che era mostruoso. Il giorno in cui fu più felice fu il giorno in cui Stalin morì: “Alla fine è morto ‘sto stronzo”, disse con allegria.

 

Migliaia di ragazzi, centinaia di professori e impiegati riuniti nella sala, corsero fuori nello spiazzo e nella strada che correva fra gli edifici del collegio, gridando slogan comunisti. Il più popolare era quello che diceva : “ Siamo socialisti, avanti, avanti e chi non ci vuole prenda i purganti”. Certamente tutto era stato pianificato  fin dall’inizio della Rivoluzione. Gi slogan comunisti, i testi comunisti, anche il momento più opportuno per dichiarare pubblicamente il carattere comunista della Rivoluzione.

 

Compresi che avevamo passato un anno chiusi in una specie di monastero, dove imparavamo una nuova religione e, pertanto, un nuovo fanatismo. Eravamo stati iniziati a nuovi misteri, e una volta diplomati, saremmo andati a diffonderli su tutta l’isola. Eravamo le guide ideologiche di una nuova forma di repressione, i profeti che avrebbero diffuso in tutte le granjas di stato dell’isola la nuova ideologia ufficiale. La nuova Chiesa avrebbe trovato in noi i suoi nuovi sacerdoti  e la sua polizia segreta.

 

La libertà era costante argomento di conversazione, ma non veniva esercitata. C’era la libertà di dire che c’era libertà , o di osannare il regime, mai di criticarlo.

 

Fidel Castro no era soltanto il Capo Supremo, ma anche il Pubblico Ministero generale. Una volta che un tribunale onesto non volle condannare degli aviatori accusati ingiustamente di aver bombardato Santiago de Cuba, Fidel si eresse a giudice e li condannò rispettivamente a venti e trent’anni  di carcere. Il giudice barbuto che li aveva dichiarati innocenti si suicidò.

 

Coltivare la terra è un atto d’amore,un’azione leggendaria. La pianta e il seme hanno bisogno della tacita complicità di chi le coltiva.

 

 Avevo allora una concezione diversa delle relazioni sessuali: amavo qualcuno, volevo che questo qualcuno mi amasse e non pensavo che bisognasse cercare, senza fermarsi mai, in molti altri corpi quello che avevo trovato in uno solo. Volevo un amore fisso, volevo quello che aveva sempre voluto mia madre, cioè un uomo, un amico, qualcuno che mi appartenesse e a cui appartenere. Ma non fu così, né credo che sia possibile,per lo meno nel mondo omosessuale. Il mondo omosessuale non è monogamico: quasi per natura, per istinto, tende alla dispersione, agli amori multipli, molte volte alla promiscuità.

 

Era il 1963,e già si intensificavano le persecuzioni sessuali. Molti degli amici di Roberto Bolivar erano rinchiusi nei campi di concentramento UMAP, ma io ero ancora un omosessuale non dichiarato.

 

Il 31 dicembre del 1963 lo passammo assieme. A mezzanotte Miguel mi abbracciò e mi disse, piangendo: “E’ incredibile che Fidel Castro sia al potere già da quattro anni”. Infelice: credeva che fosse già troppo. Finì per essere arrestato e deportato in uno dei campi di concentramento dell’UMAP.  Non lo vidi mai più , e nemmeno in esilio ne ho saputo più nulla. Talvolta penso che lo abbiano ammazzato nel campo di concentramento: era collerico, indisciplinato e amante della vita.

 

Rodriguez Feo e Virgilio avevano il balcone in comune. Si racconta che una volta, mentre Rodriguez Feo aveva gente a casa, Virgilio andò a stendere qualcosa sul balcone. Qualcuno chiese a Rodriguez Feo se quello era Virgilio Pinera e lui rispose : “ No. Quello era Virginio Pinera”. Per questo non andò al suo funerale, perché una volta che Virgilio cadde in disgrazia presso il regime, fu come morto per lui. E questo accade perché nei regimi del terrore diventa malvagia anche molta della gente che li subisce. Non sono molti quelli che sfuggono a questa malvagità delirante: e chi ne resta fuori viene ucciso.

 

Lezama aveva lo strano privilegio di irradiare una vitalità creatrice. Dopo aver parlato con lui uno ritornava a casa e si sedeva alla macchina da scrivere, perché era impossibile ascoltarlo senza rimanere ispirati. In lui saggezza e innocenza si fondevano. Aveva il dono di dare un senso alla vita degli altri.

 

Lezama riconobbe in Virgilio anche il grande poeta e drammaturgo che era sempre stato. Quando Virgilio compì sessant’anni , Lezama scrisse una delle sue poesie più profonde, Virgilio Pinera compie sessant’anni. Alla fine i due uomini si avvicinarono, forse uniti dalla persecuzione, la discriminazione e la censura che colpiva entrambi.

 

Nel 1969 Lezama lesse alla Biblioteca nazionale una delle conferenze più straordinarie della letteratura cubana, intitolata Confluencias. Era l’affermazione della fantasia creatrice, dell’amore per la parola, contro chi vi si opponeva. La bellezza per la bellezza è pericolosa per ogni dittatura, perché essa implica un ambito che va oltre i limiti che la dittatura assegna agli esseri umani; il suo territorio sfugge al controllo della polizia di regime che non può, pertanto, regnarvi. Per questo irrita i dittatori che vorrebbero distruggerla in qualsiasi modo. La bellezza, in un sistema dittatoriale, è sempre dissidente, perché le dittature sono di per sé antiestetiche, grottesche. Praticare la bellezza è per i dittatori e i loro scagnozzi un atteggiamento reazionario. Per questo Lezama e Virgilio conclusero la loro esistenza nell’ostracismo, abbandonati dagli amici.

 

La mia generazione leggeva le poesie proibite dal regime di Castro, quelle di Jorge Luis Borges, quelle di Octavio Paz. La nostra generazione, quella nata negli anni quaranta, è stata una generazione perduta. Distrutta dal regime comunista. La nostra giovinezza si sprecò nel fare inutili guardie, nell’andare a tagliare canna da zucchero, nell’ascoltare discorsi senza fine che ripetevano sempre le stessa solfa, nel cercare di eludere le leggi repressive; nella lotta costante per procurarsi un paio di pantaloni o di scarpe, nel desiderio di affittare una casa sulla spiaggia dove leggere poesie o realizzare le nostre avventure erotiche, nella lotta per sfuggire all’eterna persecuzione della polizia e dell’arresto.

 

Che ne è stato dei ragazzi di talento della mia generazione? Nelson Rodriguez, l’autore di El Regalo, fu fucilato. Hiram Pratt, uno dei poeti migliori di quella generazione, diventò un povero alcolizzato. Pepe il Pazzo, il narratore torrenziale, si uccise. Luis Rogelio Nogueras, poeta di grande talento, è morto da poco in circostanze abbastanza confuse, non si sa se di AIDS o di polizia castrista. Norberto Fuentes, narratore, dopo essere stato perseguitato è diventato un agente della Sicurezza di stato, ormai in disgrazia. Guillermo Rosales, eccellente romanziere, si sta spegnendo in un ospizio per disabili a Miami. E che ne è stato di me? Dopo aver vissuto per trentasette anni a Cuba, sono in esilio, vittima di tutte le disgrazie che un esilio comporta e in attesa della morte imminente. Perché questo accanimento contro di noi? Perché questo accanimento contro tutti quelli che hanno voluto allontanarsi dalla piatta tradizione e dalla rozzezza della nostra Isola? Credo che i nostri governanti e parte del nostro popolo e la nostra stessa tradizione non abbiano mai sopportato la grandezza e la dissidenza. Hanno sempre voluto che tutto fosse piatto, volgare. Chi non si è adeguato alla regola della mediocrità è stato guardato di traverso o messo  alla berlina.

 

I dittatori dei regimi totalitari possono distruggere gli scrittori in due modi: perseguitandoli o riempiendoli di prebende ufficiali.  Ma a Cuba morirono anche quelli che scelsero le prebende, in modo più triste e indegno degli altri.

 

Un giorno ci mettemmo a fare l’inventario degli uomini che ci eravamo fatti in quell’occasione: era il 1968. Io, dopo complicati calcoli matematici, arrivai alla conclusione che avevo fatto l’amore con più di cinquemila uomini. Hiram, più o meno, la stessa cifra. Ma non eravamo soltanto noi a essere toccati da quel furore erotico: lo erano tutti, le reclute, che passavano mesi interi d’astinenza, e tutto il paese. Ricordo un discorso di Fidel Castro che si arrogava il potere di dire agli uomini come dovevano vestirsi; criticava anche i ragazzetti che portavano il ciuffo e suonavano le chitarre per strada. Tutte le dittature sono caste e antivitali. Ogni manifestazione di vitalità è di per se stessa nemica dei regimi dogmatici. Era logico che Fidel Castro ci perseguitasse, che non ci lasciasse fare l’amore e che cercasse di eliminare qualunque pubblica manifestazione di vita.

 

Credo che a Cuba non si sia mai scopato tanto come negli anni sessanta, cioè nei dieci anni in cui furono promulgate tutte le leggi contro gli omosessuali, si scatenarono le persecuzioni e furono creati i campi di concentramento.

 

Non saprei come chiamare i giovani cubani di quei tempi; non so se omosessuali attivi o bisessuali. Avevano fidanzate e mogli, ma quando stavano con noi godevano moltissimo. Qualche volta anche più che con le loro donne, che spesso si rifiutavano di prenderglielo in bocca ed erano piene di pregiudizi.

 

Il mare fu per me la scoperta e la felicità più grande. Le mareggiate invernali, sedersi di fronte al mare, camminare da casa mia fino alla spiaggia  a vedere il tramonto. Il tramonto di Cuba, irripetibile, specialmente all’Avana, dove il sole va a cadere come un’immensa palla nel mare, mentre tutto si trasforma in un mistero unico e breve, nel profumo del sale, della vita, del tropico. Le onde arrivavano quasi fino ai miei piedi, lasciando sulla sabbia una scia dorata.

 

La nostra meta era sempre e comunque il mare. Il mare, una festa che ci obbligava a essere felici anche se non volevamo.

 

Senza dubbio Cintio sapeva da che parte soffiavano i tempi politici e voleva mettersi al riparo. Era la tipica attitudine del cattolico reazionario, della stessa Chiesa cattolica: sempre di fianco ai potenti, tradendo gli umili. Per ironia della sorte, la notte in cui Cintio fece professione di castrismo ci fu all’Avana una delle più grosse retate di giovani; una retata brutale della Sicurezza di stato nella quale centinaia di giovani furono arrestati e picchiati dalla polizia e portati ai campi di concentramento, dove c’era bisogno di braccia per tagliare le canne. La raccolta si avvicinava e quei giovani pieni di vita e capelloni, che avevano ancora il coraggio di passeggiare per le strade, furono tutti deportati, come era successo con gli indios e gli schiavi neri, nelle piantagioni di zucchero. Era la fine di un’epoca, clandestina e precaria, ma anche piena di creatività, erotismo, lucidità e bellezza. Quegli adolescenti non furono mai più quelli di prima; dopo tutto quel lavoro forzato e quella sorveglianza, diventarono in gran parte fantasmi schiavizzati, che non avevano a loro disposizione neppure le spiagge, molte delle quali furono chiuse e trasformate in circoli per ufficiali dell’esercito castrista o per turisti stranieri.

 

Olga sapeva ascoltare, rara virtù per un cubano, e, poiché non aveva pretese letterarie, era aliena da ogni critica severa come anche da elogi opportunistici.

 

Il mondo di Olga Andreu, negli ultimi anni della sua vita, fu un mondo popolato dai fantasmi delle persone amate, scomparse tragicamente. La sua morte è stata forse un atto vitale; ci sono momenti in cui ostinarsi a vivere è degradarsi, compromettersi, morire di noia. In quella regione senza tempo, dove la Sicurezza non avrebbe potuto incasellarla, Olga ha voluto entrare con tutta la sua giovialità e la sua dignità, intatte.

 

La Sicurezza di stato scelse come capro espiatorio Heberto Padilla. Padilla era il poeta irriverente che aveva osato presentare a un concorso ufficiale un libro critico come Fuera del juego. All’estero era già un personaggio; bisognava  quindi distruggerlo, distruggendo con lui tutti gli altri intellettuali cubani che avessero le stesse velleità. Nel 1971 Padilla fu arrestato con sua moglie, Belkis Cuza Melè. Fu chiuso in una cella, minacciato, picchiato. Dopo trenta giorni uscì da quella cella trasformato: uno straccio.   … La notte della confessione di Padilla fu una notte tristemente indimenticabile. L’uomo vitale, che aveva scritto poesie bellissime, rinnegava tutto quello che aveva fatto, rinnegava anche se stesso, dandosi del codardo, del miserabile e del traditore.

 

Contemporaneamente allo spettacolo desolante della confusione di Padilla, il governo di Castro organizzava quello che fu chiamato il Primo congresso di educazione e cultura, e che costituiva l’esatto contrario di quel che il suo nome dichiarava.

 

Il congresso si accanì soprattutto contro gli omosessuali. Vennero letti testi in cui l’omosessualità figurava come un caso patologico e in cui, soprattutto, si affermava che tutti gli omosessuali che lavorassero in un centro culturale dovevano essere immediatamente sollevati dall’incarico. Iniziò il parametraje: ogni scrittore,ogni artista, ogni drammaturgo omosessuale riceveva un telegramma che gli comunicava che, poiché non aveva i requisiti politici e morali per ricoprire la carica che aveva, veniva lasciato senza lavoro o gliene veniva offerto uno nei campi di lavoro forzato.

 

Vedevo mia madre prima ancora di entrare in casa, sulla soglia o per la strada, a pulire il pavimento. Aveva l’abitudine di spazzare il pavimento così lievemente che dava l’impressione che quel che le importava non fosse raccogliere la sporcizia , ma passare la scopa e basta. Il suo modo di spazzare era come simbolico; era così eterea, così fragile, con quella scopa che non scopava niente, ma che sentiva il dovere di maneggiare. Forse cercava di spazzare via la vita, tutta la sua miseria, la sua solitudine, e me, suo unico figlio, omosessuale caduto in disgrazia, scrittore perseguitato.

 

La donna e l’omosessuale vengono considerati, all’interno del sistema castrista, esseri inferiori. I maschi possono invece avere varie donne, segno della loro virilità.

 

Fu uno degli aspetti più terribili del castrismo, spezzare i vincoli dell’amicizia, farci sospettare anche dei nostri migliori amici, trasformare i migliori amici in informatori, in poliziotti. Ormai non mi fidavo più di molti di loro. Il fatto più tragico fu che queste persone erano vittime anch’esse del ricatto del sistema, fino a perdere la loro umanità.

 

In dicembre la peschiera si asciugò completamente e io mi rifugiai contro i suoi alti argini. In quel luogo tenevo una specie di biblioteca ambulante; Juan m aveva portato altri libri, che costituivano per me come un tesoro: Dall’Orinoco alle Amazzoni, La montagna incantata, Il castello. Scavai un buco in fondo alla peschiera e ve li sotterrai, chiusi in uno dei sacchi di polietilene che abbondavano ovunque. Credo fossero la sola cosa che quel sistema fosse riuscito a produrre in quantità.

 

Fin dall’infanzia il rumore si è sempre imposto alla mia vita: tutto quello che ho scritto l’ho scritto per contrastare il rumore degli altri. Credo che il rumore sia una caratteristica dei cubani: è come una dote innata, che fa parte della loro natura esibizionista.

 

… Il  mio corpo non accettava il fatto di essere imprigionato, di non potere più correre per la campagna e, anche se la mia intelligenza cercava di farsene una ragione, continuava a non capire che in quella branda piena di cimici, in quel caldo soffocante, avrei dovuto rimanere per mesi, forse per anni. Il corpo soffre più dell’anima, perché l’anima trova sempre qualcosa a cui aggrapparsi: un ricordo, una speranza.

 

Quelle seghe costarono care a Faccia di Bue, ma i piaceri sessuali si pagano quasi sempre cari. Prima o poi, ogni minuto di piacere che godiamo , lo paghiamo con anni di sofferenza; non è la vendetta di Dio, ma del diavolo, nemico delle cose belle. La bellezza è sempre stata pericola. Martì diceva che colui che brilla di luce propria  rimane solo. Io direi piuttosto che colui che persegue la bellezza viene, presto o tardi, distrutto. L’umanità non tollera la bellezza, forse perché non può vivere senza di essa. L’orrore della bruttezza avanza ogni giorno a passi sempre più veloci.

 

Mi portarono, sotto scorta, in una stanzetta dove c’era mia madre, che aveva ottenuto l’autorizzazione per venirmi a trovare.  Si avvicinò e mi abbracciò piangendo. Toccò la mia uniforme da prigioniero e disse: “ Che stoffa pesante, chissà quanto soffri il caldo”. Quell’esclamazione mi commosse più di ogni altra cosa. Le madri hanno sempre la magica capacità di trattarci come bambini.

 

Non rimasi molto sorpreso dal fatto che Hiram Pratt fosse un delatore; dopo aver vissuto tanti anni sotto quel regime, avevo imparato a capire come gli uomini possano rinunciare a ogni umanità per sopravvivere. La delazione è qualcosa che la maggior parte dei cubani pratica quotidianamente. Quando, in seguito, uscii dal carcere, venni a sapere che mentre ero latitante Hiram Pratt, su istigazione della Sicurezza di stato, era andato a trovare tutti i miei amici per scoprire dove fossi nascosto. Era stato anche da mia madre.

 

Si, il coraggio è una follia, ma una follia piena di grandezza.

 

In quei giorni venne a trovarmi Victor, e mi disse che stavo per uscire e che avrebbero potuto procurarmi anche un lavoro. Io non avevo idea di che cosa avrei fatto della mia libertà, né di dove sarei andato a stare. I veri amici erano pochi. Sono sempre pochi quando si è nei guai.

 

L’unica cosa positiva era che potevo vedere il mare; vederlo, perché non ci si poteva più entrare. Per ordine del governo potevano accedere alle spiagge solo i lavoratori iscritti al sindacato. D’altra parte i lavoratori non potevano scegliersi la spiaggia, ma dovevano andare a quella del sindacato. Per dividere i bagni avevano alzato muri enormi, che si inoltravano in mare. Io, che ero senza lavoro, non potevo neanche avvicinarmi alle spiagge, potevo al massimo sedermi di fronte al mare al Malecòn. Non era permesso nemmeno buttarsi in acqua davanti al Malecòn; chi era sorpreso lì a fare il bagno era arrestato. Come si può vivere in un’isola senza avere accesso al mare? Avevo sempre pensato che l’unica cosa che a Cuba ci aveva permesso di non impazzire completamente era stata la possibilità di andare al mare, tuffarsi in acqua e nuotare.

 

A mezzanotte ci salutammo e Lezama mi disse : “Ricordati che la nostra unica salvezza è la parola. Scrivi”.

 

Stanco di tutta quella gente che non sapeva che cosa fosse l’amicizia, in un momento in cui avrebbero dovuto dimostrarlo davvero, scrissi una lettera un po’ ironica, con questo titolo: Modulo di rottura dell’amicizia. Diceva così:

Signore, in accordo con il bilancio di liquidazione delle amicizie che redigo ogni fine anno,basato su rigorose constatazioni, Le comunico che il Suo nome è andato a ingrossare l’elenco dello stesso. Cordialmente,

Reinaldo Arenas

 

Uno degli aspetti peggiori della tirannide è che si prende tutto sul serio e si uccide il senso dell’umorismo. Storicamente Cuba era sempre sfuggita alla realtà grazie alla satira e alla burla. Ma con Fidel Castro il senso dell’umorismo era andato via via scomparendo, fino a essere proibito; così il popolo cubano perse una delle poche possibilità che aveva di sopravvivere. Negandogli il riso, gli tolsero il senso profondo delle cose. Sì, le dittature sono pudiche, becere, e assolutamente noiose.

 

Per evitare ai miei veri amici ogni complicazione, misi sulla porta di casa questo cartello: “ Le visite sono piacevoli, ma non gradite”. E sulla parete , dipinsi con la vernice rossa la parola “NO”. Quel “no” era la mia protesta contro qualunque poliziotto mascherato da amico venisse a trovarmi.

 

Voleva scrivere ma non ci riusciva. Dopo due o tre righe smetteva e cominciava a piangere a dirotto. Io gli dicevo che era uno scrittore, pur sapendo che non avrebbe mai scritto una sola cartella,  e questo lo consolava. Voleva che gli insegnassi a scrivere, ma scrivere non è un mestiere, è una specie di maledizione; la cosa più terribile era che lui era stato colpito dalla maledizione, ma lo stato dei suoi nervi gli impediva di scrivere. Non lo amai mai tanto come il giorno che lo vidi seduto davanti a un foglio bianco, mentre piangeva, perché non poteva scrivere.

 

Sono sempre stato convinto che l’amore e il sesso sono due cose diverse; l’amore vero implica una complicità e un’intimità che non esistono nelle relazioni basate solo sul sesso.

 

Fidel Castro aveva sempre odiato gli scrittori, anche quelli che stavano dalla parte del governo, come Giillèn e Retamar, ma nel caso di Virgilio il suo odio era ancora più radicato, forse perché era omosessuale e aveva un’ironia caustica, anticomunista e anticattolica. Era la personificazione dell’eterno dissidente, del costante anticonformista, del ribelle a oltranza.  Virgilio era caduto in disgrazia presso Fidel Castro con il romanzo Presiones y diamantes, nel quale, venuti a sapere che un famoso diamante è, in realtà, falso, lo si gettava nel water; era una storia troppo simbolica. Il diamante si chiamava Delfi, Fidel al contrario.

 

Nei primi giorni di aprile del 1980 un autista della linea 32 si era lanciato, con tutti i suoi passeggeri, contro il portone dell’ambasciata del Perù, chiedendo poi asilo politico. La cosa strana fu che anche tutti i passeggeri della corriera chiesero asilo; dall’ambasciata non volle uscire nessuno.

 

Per non rischiare una sommossa popolare, Fidel e l’Unione Sovietica decisero che era necessario aprire una breccia, lasciare uscire dal paese un gruppo di dissidenti; sarebbe stato come fare un salasso a un corpo malato. Con un discorso disperato e furente, Castro, con Garcia Marquez e Juan Bosch che lo applaudivano, accusò tutti quei poveretti nell’ambasciata di essere antisociali e depravati sessuali. Non potrò mai dimenticare il discorso e la faccia di Castro, che sembrava un topo rabbioso, né gli applausi ipocriti di Gabriel Garcia Marquez e Juan Bosch.

 

Davanti all’entrata di casa mia avevano appeso dei cartelli che dicevano: VIA GLI OMOSESSUALI, VIA LA FECCIA. Andarmene era esattamente quello che avrei voluto, ma come? Ironicamente il governo cubano, pur insultandoci e invitandoci ad andarcene, ci impediva di partire. Castro non aveva aperto affatto il porto di Mariel per far uscire dal paese chi o desiderava; il suo piano era far uscire soltanto coloro che non avrebbero compromesso l ‘immagine del suo governo: non fu mai permesso di andarsene ai professori universitari o agli scrittori che avessero pubblicato libri all’estero, come me, per esempio.

 

Come cominciai a rilasciare dichiarazioni contro la tirannia che avevo subito per vent’anni, i miei stessi editori, che con i miei libri avevano fatto abbastanza soldi, mi si rivoltarono contro … Niente di tutto ciò mi sorprese: sapevo bene che anche il sistema capitalistico era sordido e mercantile. Avevo già detto, in una delle mie prime dichiarazioni dopo aver lasciato Cuba: ” La differenza tra il sistema comunista e quello capitalista è che, se ti danno un calcio in culo, sotto un sistema comunista devi applaudire, sotto il capitalismo puoi gridare; io sono venuto qui a gridare.”

 

Visitai vari paesi: il Venezuela, la Svezia, la Danimarca, la Spagna, la Francia, il Portogallo. In tutti lanciai il mio grido; era il mio tesoro, era tutto quello che avevo. Scoprii un animale inesistente a Cuba: il comunista di lusso. Ricordo che durante un banchetto all’Università di Harvard un professore tedesco mi disse: ” Posso capire che tu abbia sofferto nel tuo paese, ma io sono un grande ammiratore di Fidel Castro e apprezzo quello che ha fatto a Cuba”.
In quel momento il professore aveva un enorme piatto di cibo davanti e gli dissi : ” Mi sembra bello che lei ammiri Fidel Castro, ma allora non può finire il piatto che ha davanti, perché nessuna delle persone che vivono a Cuba, salvo gli alti funzionari, può mangiare roba simile.” Presi il piatto e lo lancia contro il muro.

 

Paradossalmente, quegli scrittori che erano fuggiti da Cuba in cerca di libertà, adesso non potevano pubblicare le loro opere nemmeno qui.

 

Una volta andai alla presentazione di un libro di Lydia Cabrera. C’era una vecchia seduta sotto una pianta di mango, davanti a un tavolino, che firmava i suoi libri: era lei. Aveva lasciato all’Avana la sua grande villa, la sua enorme biblioteca, tutto il suo passato, e viveva in un modesto appartamentino a Miami, e scriveva autografi sotto una pianta di mango, su libri pubblicati a sue spese. A vederla lì, cieca, compresi che era la personificazione di una grandezza  e di una ribellione estranee a qualunque altro scrittore, sia a Cuba sia in esilio. Era una delle donne più grandi della nostra storia, ed eccola lì, esiliata, dimenticata, o circondata da gente che non aveva mai letto uno dei suoi libri e non cercava altro che una fugace apparizione sui giornali illuminata dallo splendore di quella vecchia. Era una specie di paradosso e, forse, anche un esempio della situazione in cui si sono trovati tutti gli scrittori cubai di tutti i tempi: condannati al silenzio, all’ostracismo, alla censura e alla prigione, e in esilio al disprezzo o all’indifferenza degli altri esuli. Il cubano soffre di una specie di istinto di distruzione e di invidia. In genere, la stragrande maggioranza non sopporta la grandezza, non tollera che qualcuno si stacchi dalla massa, vorrebbe quindi livellare tutti alla mediocrità.

 

Sapevo che in quel posto non averi potuto vivere. A distanza di dieci anni da allora, mi rendo conto che per un esule non esiste un posto giusto un cui vivere. Non esiste perché il posto dove abbiamo sognato, abbiamo scoperto un paesaggio, abbiamo letto il nostro primo libro, abbiamo avuto la nostra prima avventura sentimentale, è sempre presente nei nostri sogni; in esilio non si è che fantasmi, ombre di qualcuno che non si realizza mai completamente; da quando sono in esilio io non esisto più; da allora ho cominciato a sfuggire da me stesso.

 

Uscì anche un numero dedicato all’omosessualità a Cuba, con interviste a persone vittime di pregiudizi di una società molto spesso reazionaria come quella di Miami e degli Stati Uniti in genere. La rivista vendeva poco, se si escludeva un piccolo gruppo di intellettuali liberali. Era logico che non potesse piacere alla sinistra godereccia degli Stati Uniti, ai progressisti ipocriti, agli agenti cubani sparsi in tutto il mondo, e specialmente negli Stati Uniti, e alle poetesse di Miami. Tutta la gente che si era stabilita lì ci guardava come marziani. Ma il Mariel continuò a essere pubblicato per qualche anno.

 

La stragrande maggioranza degli intellettuali americani, che pur passano da progressisti e strumentalizzano il risentimento dei popoli oppressi, hanno quasi sempre appoggiato Castro o chiuso un occhio davanti ai suoi crimini.

 

Io racconto la mia verità, come un ebreo che abbia sofferto il razzismo o un russo che sia stato in un gulag, come qualunque essere umano che abbia avuto gli occhi per vedere le cose come sono. Grido, dunque sono.

 

Così , quando scappai da Cuba, i miei romanzi erano libri di testo alla New York University, ma come assunzi una posizione di radicale condanna verso la dittatura di Castro, la professoressa Haydèe Vitale Rivera li tolse via via dal suo corso finché non ne rimase neanche uno. E fece lo stesso con tutti gli altri cubani esiliati. Alla fine, nel programma rimasero soltanto alcuni romanzi di Alejo Carpentier. Mi è successa la stessa cosa  con altre università degli Stati Uniti e di tutto il mondo; ironicamente, quando ero prigioniero e confinato a Cuba, avevo molte più opportunità editoriali, perché lì non mi lasciavano parlare e le case editrici straniere potevano considerarmi uno scrittore residente all’Avana.

 

Uno dei casi più visti di ingiustizia intellettuale di questo secolo fu quello di Jorge Luis Borges, al quale venne sistematicamente negato il Premio Nobel per il suo credo politico. Borges è uno degli scrittori sudamericani più importanti di questo secolo, forse il più importante; ma nonostante questo il Premio Nobel lo hanno dato a Gabriel Garcia Marquez, scimmiottatore di Faulkner, amico personale di Castro e opportunista nato. La sua opera, salvo qualche indubbio merito, è piena di populismo, di cianfrusaglieria: non arriva all’altezza dei grandi scrittori morti nell’oblio o trascurati.

 

All’università di Stoccolma tenni una conferenza nella quale, in realtà, era mia intenzione leggere brani della rivista Granma; era un modo efficace di mostrare al pubblico quello che succedeva in quel momento a Cuba. Il pubblico era quasi interamente formato da cileni esiliati da Pinochet che non mi lasciavano parlare, facevano un chiasso  tremendo e si alzavano in piedi per insultarmi; dicevano che quello che raccontavo era assolutamente falso. Io, a un cero punto, tirai fuori le leggi promulgate dal governo di Cuba e gliele lessi; lessi anche molti giornali cubani, ma non c’era modo di convincerli. Vivevano bene in Svezia, andavano ogni anno a passare le vacanze in Cile, per poi tornare in Svezia, dove avevano una pensione sociale e delle case confortevoli. Io ero avvolto in un gigantesco pastrano che avevo comprato a New York per ottanti dollari … Devo riconoscere però che molti intellettuali svedesi mi accolsero in ben altro modo. Avevano una posizione diversa rispetto alla dittatura di Fidel Castro, conoscevano il caso di Armanda Valladares e quelli di molti altri intellettuali prigionieri, e con loro potei parlare; pubblicarono molte mie interviste e riuscii anche a mettermi in contatto con varie case editrici, delle quali ovviamente non avevo mai sentito parlare.

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